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Robert Redford in Corvo rosso non avrai il mio scalpo!
Anche se le sue filmografie si chiudono con il cameo di Avengers: Endgame (è Alexander Pierce, il capo dello SHIELD), l’ultimo, vero ruolo di Robert Redford – morto oggi a 89 anni, dopo una carriera che non ha paragoni – è quello di Old Man & The Gun. È un vecchio rapinatore di banche, “un gentiluomo” a detta dei rapinati annichiliti dal magnetismo di un volto incompatibile con l’idea stessa della criminalità. È una storia che, in fondo, nasconde una biografia: ciò che vediamo nel film di David Lowery è “quasi tutto vero” leggiamo prima dei titoli di testa. È l’anatomia di un corpo che abbiamo conosciuto – e amato – per oltre mezzo secolo. E che in quel film – un omaggio alle atmosfere, ai colori e alle presenze della New Hollywood – si rivela inafferrabile.
“So che è stato giovane”, dice ad un certo punto il poliziotto che gli dà la caccia, definendo così i limiti di una ricerca impossibile. Ma impossibile per chi? Dell’old man, d’altronde, sappiamo tutto. Perché, nei fatti, è esattamente Robert Redford. Nessuno lo nega, perfino sul nome del personaggio c’è qualche dubbio. Nei flashback che evocano le sue evasioni, lo vediamo giovane, biondissimo, bellissimo: sono frammenti che arrivano da La caccia, il grande capolavoro maledetto di Arthur Penn. E, sparse qua e là, ci sono suggestioni da Brubaker, Butch Cassidy e chissà quanti altri baluginii.


Sissy Spacek e Robert Redford in The Old Man and The Gun
Old Man & the Gun è un’ode a un’icona in gloria del divo della New Hollywood che nel frattempo è diventato il padrino del cinema indie, la figura che congiunge due universi già di per sé naturalmente, intimamente connessi in una storia che sta dentro la contemporaneità del classico. Perché con il suo sorriso accecante, il capello kennedyano, la gentile spavalderia di un eroe che trascende il tempo e lo spazio, Redford è sempre stato l’incarnazione stessa della nostalgia come slancio per immaginare un futuro migliore.
Col naturale carisma di chi cavalca ancora che sia nei sentieri metropolitani così come nei rodei meno nobili, nelle rughe che solcano il volto immolato al sole di una verità abbagliante, Redford è stato l’eroe di cui avevamo bisogno, l’alfiere che cercava continuamente di dissimulare il disincanto nell’era della paranoia, il testimone di un’America schiacciata tra l’emancipazione dalla ruralità (Questa ragazza è di tutti, primo incontro con il complice di una vita, Sydney Pollack) e la gioia urbana (A piedi nudi nel parco con Jane Fonda, la sua “versione femminile”), la paranoia (I tre giorni del Condor) e l’idealismo (Tutti gli uomini del presidente), l’odio (Ucciderò Willie Kid) e la riconciliazione (Corvo rosso non avrai il mio scalpo!), la disillusione (Il candidato) e la fiducia (Il migliore), l’amore che vale una vita anche quando non c’è più (Come eravamo ma anche i neoclassici La mia Africa e Havana) e la naturale tensione bromance (con Paul Newman, per esempio, in La stangata).


Robert Redford in La stangata
Ribelle with cause, pioniere di un divismo che è atto politico, agitatore integerrimo dentro il sistema (le sue regie: la fine dell’american dream in Quiz Show, l’antibellicista Leoni per agnelli, il civile The Conspirator, il revival La regola del silenzio), Redford è stato il presidente che avremmo meritato per un mondo più sereno ma, come Sundance Kid in Butch Cassidy, ha preferito lanciarsi nel vuoto per sfuggire a chi non credeva che bastasse il cinema per incidere sulla realtà. Forse ha fallito, forse aveva ragione lui. Di certo il grande schermo l’ha amato, ricambiato, e noi, senza di lui, saremmo stati altri spettatori.