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Il seme del fico sacro
La lente impietosa delle tragedie rivela puntualmente il leitmotiv che l’umanità coltiva sottotraccia come una vergogna indispensabile alla sua sopravvivenza, la gara per rinchiudersi a testuggine nel bunker del proprio spicciolo tornaconto protetti dalla semplificazione cooptata di posizioni ideologiche la cui gestione è affidata ai potenti che, si spera, se ne ricorderanno al momento giusto.
Il Dio è con noi contemporaneo ha via via assunto la forma grottesca e inedita di un Tarantino formato Mc Donald elevato ai fasti neocolonialisti dal post puritanesimo affarista senza scrupoli formato Casa Bianca verso cui il mondo, pochissimi esclusi, è indulgente al punto da obliterare secoli di lotta per i diritti umani e delle nazioni con sorrisini compiacenti, acquiescenze cortigiane da tardo impero e servilismi degni di miglior causa.
Il seme del fico sacro, opera del regista dissidente Mohammad Rasoulof che modula la sobrietà obbligata dalle restrizioni in un neorealismo dalla coerenza meticolosa e drenata all’estremo, offre più di uno spunto per sottrarsi all’appiattimento generale e complice. Lo fa attraverso il filtro di una entomologia medio borghese dalla cupezza sorda, priva di sfogo, in cui la motivazione personale perde la bussola annichilita da una coercizione di regime distribuita capillarmente ai vari livelli delle interazioni personali e sociali.
Ogni epica della liberazione è assente senza per questo cedere alla tentazione della devastazione ostentata come parametro estetico controcorrente. Un pudore narrativo che si gioca su quella particolare frequenza della normalità che è humus privilegiato dell’orrore distillato nelle sue infinite dissimulazioni. Di fronte allo scandalo dell’infamia quotidiana, dei tradimenti in favore di carriera e benefit di vario genere, omissioni da cui nessuno può dirsi veramente esente, siamo ciechi, sordi e muti perché ci riguarda da vicino, noi che il fico sacro lo lasciamo seccare senza batter ciglio, attenti che i semi della renitenza resistente non germoglino a scombinare i nostri piani.


Il seme del fico sacro
La infiltrazione insidiosa del potere teocratico iraniano in stile vite degli altri descritto da Mohammad Rasoulof trascende la contingenza storico geografica e diventa simbolo di un mondo che oggi mostra di non essere cambiato in indifferenza, passione per il sopruso e il massacro, ansia di conquista e prevaricazione, ipocrisia e codardia vendute volentieri al miglior offerente o al più prepotente.
La storia di Iman, padre padrone, zimbello un po’ goffo che si offre alla temperie di ciò che gli altri decidono per lui, è solo in apparenza quella di un protagonista le cui scelte influenzano i destini di chi incontra, figlie e moglie comprese. Il racconto è un disvelamento progressivo della sua metamorfosi nel pupazzo sostanzialmente passivo, campo di battaglia inerte su cui si affrontano poteri contrastanti.
Le sue reazioni sempre a mezza strada ne fanno una rappresentazione perfetta di quella zona d’ombra in cui si decide assecondando il volere altrui con riluttanza e connivenza rassegnata. Iman non è un uomo di potere, ne è lo strumento marginale e sempre rimpiazzabile svuotato di identità, funzionario di medio livello la cui carriera non può nulla sul suo codice genetico di utile idiota il cui unico appiglio è un orgoglio generico e a tratti isterico che prende la forma dei dogmi religiosi e istituzionali, provvidenziali nell’azzerare in modo illusorio ma estremamente efficace ogni residuo di responsabilità personale.


The Seed of the Sacred Fig
Iman, improbabile Pier Delle Vigne dantesco capace di trasformare la sua casa in un capestro, nello stillicidio di tempi lunghi e privi di entusiasmo incarna fino in fondo la figura peculiare del carnefice-vittima reietto cui sarà negato ogni rimpianto dai persecutori, dalla famiglia e infine dallo spettatore. La vicenda chiave del film è la sparizione tra le mura di casa di una pistola che gli è stata affidata dal regime per difesa personale.
Metafora del suo percorso, lo scettro minimo prestato ad usura gli verrà sottratto nella penombra insidiosa del labirinto domestico oppresso e ribelle, così carico di conflitti inespressi da sembrare esplodere. Il seme del fico sacro lotta per trovare uno spazio vitale, compresso nella morsa della follia teocratica. Il cumulo di polvere che sembra soffocarlo viene inaspettatamente in soccorso, alla fine, giudice di un giudizio inesorabile che risputa la pistola nel momento in cui la traiettoria insignificante e personale di Iman verrà sepolta dalla rovina del deserto.