Ambizione di esistenza che si oppone eroicamente alla inconsistenza dell’essere come ente determinato una volta per tutte, forse anche volta per volta, questa è l’immagine, Sisifo provvidenziale, ci aiuta ad eludere l’indeterminatezza che dissolverà il sussulto vitale nel flusso indistinto in cui siamo immersi, di cui siamo fatti e che a causa di un paradosso inspiegabile non siamo attrezzati per navigare.

Rovistando nei meandri della contraddizione intrinseca all’immagine che mi appare sempre più come chiave di lettura del processo artistico e del rovello esistenziale, mi è parso di riconoscere l’universo di Cy Twombly, le cui opere sembrano riuscire nell’impresa di riunire gli opposti, affermazione e negazione insieme di una qualunque funzione salvifica della rappresentazione.

Per conto mio le sue opere si approssimano alla negazione del concetto stesso di meta con una lucidità cristallina solo in apparenza esplosa negli eccessi dell’espressionismo astratto, nate da un impulso acefalo e potente che se da un lato si dota di tutti i crismi della composizione e della scrittura colta, dall’altro si affranca dall’obbligo di una destinazione, di un risultato, prese nel vortice di una spinta gestuale cui ogni conclusione formale è del tutto indifferente.

Per qualche ragione Twombly tiene insieme la disgregazione e l’aggregazione degli accadimenti segnici in un ambiente che rinuncia a qualunque polarizzazione morale o estetica, suggerendo una sostanziale libertà da ciò che inevitabilmente ci accompagna come una condanna biblica quando pensiamo all’immagine: la schiavitù del senso compiuto in una forma chiusa, la morale della favola.

Vero è che se la forma non è chiusa, noi provvediamo puntualmente ad incastrarla nell’artificio dell’interpretazione, pure, con Twombly, l’operazione risulta quanto mai difficile e innaturale. Il complesso infinito di immagini non immagini cui ha offerto il teatro di una superficie è organizzato spesso in polittici di potenza indiscutibile, uno per tutti i Nine discourses on Commodus la cui consequenzialità è unicamente un espediente per proporci in forma classica una contraddizione irrisolvibile, lo specchio deformato di un processo coerente solo in apparenza le cui fasi non sono realmente tali ma appunti aperti ed essenzialmente autonomi, ipotesi prive di tesi, suggerimenti di un altrove che forse è già lì o da qualche altra parte ma che comunque è destinato a non manifestarsi mai in modo esaustivo.

Nel mondo visivo di Twombly il riconoscere diviene talmente secondario che se ne può accettare la inattuabilità di fatto, come dire che la sua opera rende familiare l’idea stessa di inesistenza, se esistiamo per immagini, non importa quanto ci sforziamo per ricostituire la scena diffusa attraverso la dispersione vibrante di fulcri catalizzati da un addensante accidentale e misterioso che nulla significa se non se stesso nel momento del suo accadimento.

Ogni parte delle opere di Twombly è nucleo e periferia insieme, la superficie riletta dal segno, il segno dalla superficie, le pause valgono il suono e la melodia è una unica frequenza instabile. L’immagine è impossibile, l’immagine non è riconoscibile, eppure il desiderio intimo che ne ereditiamo per poter collocare in qualche modo questo fatto controverso di esistere genera impulsi che danno origine alla forma. Ma siamo certi che l’immagine sia effettivamente una trascrizione della forma? Twombly sembra lavorare alle strutture estetiche senza preoccuparsi dell’immagine che ne deriva, distribuendo equamente l’instabilità costante tra parola e linguaggio. Gli affioramenti pulsanti e occasionali scanditi nelle sue opere multiple definiscono una quantità di nuove narrazioni il cui verso e senso possono tranquillamente contraddirsi senza compromettere la solidità d’insieme.

La forza del nonsenso di un non racconto che crea racconto, il non fotogramma che crea una progressione filmica, non origina dalla rappresentazione del processo che crediamo di riconoscere, non risiede nella nostra idea di immagine e non appartiene all’ambito estetico frequentato dalle dissertazioni critiche. Credo si trovi invece in ciò che la scrittura di Twombly lascia intendere, che l’immagine da qualche parte, forse, esiste, e non ha alcuna incidenza sull’accadimento urgente, imitazione meravigliosamente sbagliata della realtà per scarabocchi da contemplare come un diluvio universale smagliato nei meandri di una storia indecifrabile verso cui procediamo come i ciechi di Saramago.