Confessiamo di non ricordare quale fosse il film scelto da Sordi per dare inizio alla sua Storia di un italiano. Fosse dipeso da noi, avremmo cominciato con una sequenza di Totò e i re di Roma, dove l’attore nei panni di un esaminatore carogna boccia il povero Totò, costretto a dare l'esame di licenza elementare per mantenere il posto di archivista ministeriale, posto ottenuto a suo tempo, pur essendo quasi analfabeta, grazie a oscuri, quanto inesistenti meriti acquisiti durante il passato regime (leggi fascista).

Sequenza memorabile, degna di rimanere impressa, oltre che nella memoria, nella storia del cinema, se non altro perché è rimasta l'unica occasione d’incontro sul set dei due grandissimi attori: Totò all’apice della sua popolarità; Sordi retrocesso a “spalla”, dopo lo sfortunato esordio da protagonista in Mamma mia, che impressione!.

Eravamo nel 1952, anno di svolta del cinema italiano, che accelerava il suo distacco dallo spirito dell’immediato dopoguerra, di pari passo con l’evoluzione dei costumi, il che non significò automaticamente rinnovarsi, ma – al contrario tornare acerre tradizioni: quella della commedia, anzitutto, che era stata e tornava a essere la sua spina dorsale. Naturalmente, ciò non significava un ritorno ai “telefoni bianchi”, che erano stati la somma distrazione concessa al pubblico del tempo di guerra. Voleva dire tingere di rosa il neorealismo, ipotizzare l’era del benessere prossimo venturo, rinunciare alla utopia delle “magnifiche sorti e progressive” per una visione più concreta e disincantata della realtà, in cui il miraggio del consumismo faceva aggio sulla palingenesi sociale.

Mamma mia, che impressione!
Mamma mia, che impressione!

Mamma mia, che impressione!

Tornando indietro non si ritrova mai il punto di partenza, poiché i parametri nel frattempo sono cambiati. I “telefoni bianchi” partivano da due figure inesistenti e perciò menzognere: la “signorinetta” e il “principe azzurro” (magari in uniforme: si vestì così anche Sordi ne I tre aquilotti, un suo peccato di gioventù).

Nell’immediato dopoguerra, l’era dell’utopia, l’italiano dei film cercò di dare sostanza all’auspicio contenuto nella lettera che Giaime Pintor inviò al fratello Luigi, prima di morire saltando su una mina tedesca: “Gli italiani sono un popolo fiacco, profondamente corrotto dalla sua storia recente, sempre sul punto di cedere a una viltà, a una debolezza. Ma essi continuano a esprimere minoranze rivoluzionarie di prim’ordine: filosofi e operai che sono all’avanguardia d’Europa. Oggi in nessuna nazione civile il distacco fra le possibilità vitali e la condizione attuale è così grande: tocca a noi di colmare questo distacco e di dichiarare lo stato d'emergenza”.

Insomma, il cinema italiano cercò di colmare il distacco tra la sua condizione e le sue possibilità. Il risultato fu la breve fiammata del neorealismo; Marcello Pagliero e Massimo Girotti al posto di Fosco Giachetti e Amedeo Nazzari; Carla Del Poggio trasformata da “signorinetta” in ragazza perduta a causa degli eventi, ma redimibile; Anna Magnani soprattutto a sostituire Elsa Merlini, stufa di far “marchette” al cinema (lo ha detto lei a Francesco Savio), restituita finalmente al teatro. Ma l’“italiano” di Sordi non apparteneva né a quello di Giachetti e Nazzari, né a quello di Pagliero e Gironi; neppure alle figurette inventate da Macario e da Rascel, i mattatori delle “risate di regime”: tornava a essere l’italiano “sempre sul punto di cedere a una viltà, a una debolezza”, deprecato da Pintor; ma con una sfrontatezza, ignota agli anni ‘30 e ai primi anni ‘40.

Un americano a Roma
Un americano a Roma

Un americano a Roma

Come dicevamo, tornando indietro, non si ritrova mai il punto di partenza. Per fortuna. Se negli anni ‘30 e nei primi anni ‘40 l’italiano descritto nei film nascondeva i propri vizi dietro una patina di virtù virginali e di eroismo, negli anni ‘50 se ne compiaceva: sempre più, man mano che ci si avviava verso il benessere. Sordi condusse per mano questo italiano lungo il tragitto che lo portò dal “neorealismo rosa” al trionfo della commedia di costume, definita ambiguamente “commedia all’italiana”.

Gli fece da battistrada attraverso numerosissime tappe, di cui ci piace ricordare Un giorno in pretura, Un americano a Roma, Il seduttore, Lo scapolo, Il marito e Il vedovo, gli ultimi quattro incentrati tutti sul rapporto con le donne, da fidanzato renitente a marito, o infedele, o tiranneggiato, per finire a Il vedovo, dove siamo in piena commedia nera. Ma Il vedovo è già del 1959: il cinema italiano preparandosi a entrare negli anni ‘60, il decennio d’oro; il “neorealismo rosa” è ormai un ricordo quasi imbarazzante la “commedia all’italiana” è divenuta l'asse portante della nostra produzione, ne rappresenta la continuità vincente.

Sordi è affiancato da Manfredi e Tognazzi e da un’attrice, Monica Vitti, che funzione alla pari di un uomo; D’Artagnan, il quarta moschettiere. Poi ci sono anche Gassman e Mastroianni , provenienti dai piani nobili del teatro drammatico. Carlo Ponti con la sua brutale franchezza ha decretata: l'attore, per sfondare nel cinema italiano, deve fare il buffone. Con l’eccezione di Nazzari, aggiunge bontà sua. Le attrici no: Sophia è appena reduce dall’Oscar ottenuto con La ciociara. Ma l’“italiano” emblematico rimane Sordi con i suoi vizi, con le sue viltà, ma anche con sua abile dialettica giustificazionista.

Non sarà mai un “mostro”, come Gassman e Tognazzi, se non in tarda età. Persino in Un borghese piccolo piccolo, dove la commedia sfocia nell’orrore, il suo “italiano” non perde del tutto la propria umanità: alla morte del giovane balordo, che tiene legato e martirizzato nella capanna sul lago, si mette a piangere. Perché, l’agonizzante aveva sostituito suo figlio. E lui, in fondo alla sua anima contorta, gli voleva bene.

Articolo pubblicato sulla Rivista del Cinematografo di aprile 2003.