“Secondo me, un po' di questo impeto di giustizia e coraggio è andato perduto. La società, allora, voleva ripristinare subito la democrazia, ma furono i giudici che lo resero possibile. Oggi non so la giustizia avrebbe la stessa voglia di scontrarsi con il potere come successe all'epoca, processando anche i militari”. Santiago Mitre è sbarcato in Italia per promuovere il suo Argentina,1985, legal drama che ricostruisce il processo ai crimini dei governatori del regime militare argentino dal 1973 al 1983. Mancato il Leone d’Oro a Venezia, dopo il trionfo ai Goya 2023 e ai Golden Globes, in film è in corsa (complicata, per la verità dal favorito Niente di nuovo sul fronte occidentale) anche per l’Oscar come Miglior Film Straniero 2023. Da domani 23 febbraio è nelle nostre sale, distribuito da Lucky Red.

Il regista, però, glissa - “Non so come andrà. Sono già contento così, se arriva l’Oscar sono contentissimo” – sottolineando l’importanza documentaria del film: “il processo e le sentenze furono una tappa fondamentale per il rafforzamento delle istituzioni della democrazia. Per noi argentini, il fatto che si celebrò un anno dopo il ritorno della democrazia fu fondamentale per mettere in chiaro i suoi pilastri e quelli della giustizia”.

La missione civile di Argentina era chiara fin dalle origini: “Quando abbiamo iniziato a parlare del film, volevamo capire quanto la gente sapesse ancora di questi fatti, quanto ricordassero, quanto era rimasto nella memoria collettiva e quanto i giovani li conoscessero. Abbiamo capito che non ne sapevano granché o non ne avevano capito l’importanza. Per cui, nella fase di scrittura, l’obbiettivo era diventato mostrare ai ragazzi la portata storica di quanto processo”.

Il film per Mitre, è stato anche l’occasione per tastare il polso allo stato di salute delle democrazie attuali: “Andando in giro per il mondo ho conosciuto tante persone critiche o indifferenti verso la democrazia. Ho sentito anche parecchi discorsi antidemocratici e questo mi rende molto, molto triste. Per cui, questo film poteva servire a regalare un punto di vista diverso sulla democrazia, a dire che non è perfetta, ma è ancora il migliore dei sistemi che abbiamo”.

“La genesi è stata lunghissima, avevo immaginato questa storia da tantissimo tempo. – continua Mitre - Volevo fare un thriller procedurale sul tema della giustizia e sul senso che ha oggi, ma ci sono tante cose che ho capito solo durante la lavorazione del film e tante altre dalle reazioni delle persone. Ancora oggi a scopro aspetti nuovi di quella realtà man mano che gli spettatori lo vedono”.

Anche il processo di ideazione della sceneggiatura è stato lungo e ponderato: “Io e Mariano Linàs (co-sceneggiatore, ndr) abbiamo sentito subito una grande responsabilità verso tutte le persone che furono uccise e coinvolte. Abbiamo lavorato con un gruppo di investigatori per due anni, abbiamo letto tutto quello che era disponibile sugli atti processuali, abbiamo ascoltato tutti i testimoni, i giudici, le famiglie delle persone coinvolte e molti membri delle associazioni dei diritti umani che furono tra le prime a raccogliere prove contro la Giunta Militare”.

La ricerca è stata fondamentale per definire anche il tono del film: “Per prima cosa abbiamo visto tutto il materiale del processo ed è stato assai doloroso. Poi abbiamo incontrato i funzionari, i giudici e abbiamo notato che a loro, mentre raccontavano scappava un sorriso, una battuta, una piccola risata. Da lì, l’intuizione: si poteva rendere giustizia a questa storia anche con una punta di humour. Lo stesso Strassera che era scontroso e ingrugnito, aveva un senso dell'umorismo molto forte. Era capace, anche in momenti di grande tensione, di ricorrere alla leggerezza. Il tono umoristico allora poteva essere una chiave per stemperare un’argomento così solenne e triste. Quando abbiamo presentato il film a Venezia, abbiamo sentito le persone che ridevano, sorridevano, piangevano, tornavano a sorridere, si emozionavano. Abbiamo avuto la certezza che quel tono potesse funzionare come meccanismo di difesa per compensare così grande dolore”.

Anche per Peter Lanzani che interpreta il giovane e ribaldo Luis Moreno Ocampo, il braccio destro del procuratore Strassera, il film è diventato un’occasione per immergersi nella storia del suo paese: “Facendo questo film ho imparato moltissime cose. Io sono nato nel 1990, cinque anni dopo il processo, l’ho studiato a scuola ma tanto altro ho scoperto grazie a Santiago e ascoltando Ocampo. Per di più, sentivo la responsabilità di rappresentare e onorare persone realmente esistite. Per fortuna la sceneggiatura era precisissima, quindi quando andavo sul set sapevo esattamente cosa fare. Il ritmo era già tutto lì, nelle pagine. E poi anche recitando con Ricardo Darìn ho imparato tantissimo”.

Anche l’attore condivide con il regista l’impatto problematico nella storia: “La prima volta che ho letto la sceneggiatura sono rimasto stupefatto, ho dovuto prendermi del tempo, distanziarmi da tutto quello che avevo letto. E l’emozione è rimasta identica, fino alla fine: ho visto il film sette volte e tutte e sette le volte ho pianto”.

La preparazione di Lanzani nel personaggio si è svolta perlopiù “a distanza”: “Il primo incontro con Luis è stato virtuale, eravamo tante persone in una chiamata on-line. Non gli ho mai chiesto aiuto nel costruire il personaggio, perché non volevamo copiare o somigliare ai personaggi. Santiago Mitre, invece, l'ha incontrato più volte e ha registrato le conversazioni. Io le ho ascoltato tutte, ma per cercare di un piccolo gesto o un atteggiamento che lo definisse, senza darne una rappresentazione esatta. Poi siamo andati a cena insieme dopo la prima proiezione. Ho saputo che era contento del film e questo mi basta”.

L’attore chiude l’incontro con un auspicio: “Il film in Argentina è andato molto bene: è un successo per tanta gente che va al cinema ancora oggi. Molti sono ragazzini di quindici anni che vanno in gruppo in sala e poi chiedono informazioni ai genitori su quello che hanno vissuto. Film come questi, che affrontano un argomento storico, realmente accaduto, vanno assolutamente visti al cinema. È fondamentale sentire come la gente partecipa o si interroga sulla storia. Mi auguro che anche in Italia sia così”.