L’ltalia che tradisce l'Italia. Sordi che tradisce Albertone. Tutti a casa di Lujgi Comencini (1960) non è solo il migliore film storico sull'8 settembre 1943, è il più "freudiano". Ci sono dentro il disorientamento, la vertigine, la paura dei figli abbandonati da una madre patria che s’era negata a se stessa vestendosi di maschie “virtù” fasciste, mentre era letteralmente “imbelle”, inadatta alla guerra. Tant'è che l’unico inno bellico conosciuto dal sottotenente Innocenzi Alberto è “Mamma, ritorno ancor nella casetta” (oggi studiosi come Franco Cassano e Aurelio Lepre rivalutano questa inettitudine iscrivendola fra le virtù nazionali).

Ma il film vibra anche della rivolta, del riscatto, del coraggio dei figli nei confronti di padri – esemplare Eduardo – la cui bontà non basta a giustificarne la viltà o l’ottusità, ovvero nei confronti dell'italiano medio che pur di tenersi lontano dai guai, di furto vi si caccia, magari saltando sul carro del perdente. Quell’italiano al quale proprio Sordi stava già dando volto qui viene prima ribadito nella caotica temperie del post-armistizio, ma poi contraddetto dall’epilogo napoletano, dalla scelta radicale cui il protagonista non si sottrae, imbracciando la mitragliatrice contro i nazisti.

Sicché nei giorni della “pace” – nel presunto finale di un conflitto contro gli americani che non impedisce a Innocenzi di amare Ginger Rogers e Joan Crawford – i nostri antieroi scoprono la necessità della guerra: se qualcuno può uccidersi a cento metri da casa, quel qualcuno dev’essere scacciato. L’italiano individualista si fa popolo diverso dalle adunate oceaniche di piazza Venezia perché finalmente libero dall’ossessione del padre tipica di ogni regime autoritario, desideroso piuttosto di maternage, di cure amorevoli, le stesse riservate da Innocenzi al geniere Ceccarelli (che pure glieli aveva fatti “a peverini”).

Perciò Tutti a casa è certo film magistralmente scritto dagli ex ufficiali Age e Scarpelli su quella che lo storico Claudio Pavone definisce “una guerra civile” (1943-’45), ma è forse soprattutto film edipico (“Mamma, ritorno...”), l'illuminante riflesso di uno scontro in famiglia tra caratteri nazionali parimenti all’opera. “Non avrete paura del buio, vero?” – urla Sordi, qua e là cedevole al birignao fino ad accennare alla voce del “suo” Ollio, imboccando il tunnel ferroviario dal quale i soldati-disertori non usciranno, perché se la sono svignata.

Ma ad aver paura del buio è evidentemente lui stesso, come nei sogni o negli incubi che paiono concretarsi dinanzi ai suoi/nostri occhi: un marinaio va a cavallo lungo un canale, una celestiale bambina “felliniana” raccoglie sui binari i bigliettini d’addio lasciati cadere dai vagoni blindaci diretti ad Auschwitz, un’altra bimba costruisce castelli nella farina (Mussolini, dove sei?). E mentre un’Italia si sfarina, un’altra ne nasce: noi oggi sappiamo che avrebbe avuto Una vita difficile (Risi, 1961). Già, quanto Sordi c’è nella nostra stona.

Articolo pubblicato sulla Rivista del Cinematografo di aprile 2003