È il 1981, François Truffaut sta per compiere cinquant’anni. Era già un maestro a ventisei, quando debuttò con I quattrocento colpi, uno dei film più importanti della storia del cinema, ma in quel momento si trova in una fase particolarmente felice: è reduce dal suo più grande successo commerciale dai tempi dell’esordio, L’ultimo metrò (oltre tre milioni di spettatori in Francia), da un clamoroso trionfo ai César (ben dieci, compresi quelli più pesanti per film, regia, attore, attrice e sceneggiatura: resta tuttora un record) e da una candidatura all’Oscar (persa in favore di Mosca non crede alle lacrime).

Ambientato nella Parigi occupata dai nazisti, L’ultimo metrò entra in un teatro e articola un tipico triangolo truffautiano (Jules e Jim, La calda amante, Le due inglesi): una celebre attrice, che dirige la compagnia in assenza del marito, un regista ebreo nascosto in cantina, scrittura un giovane attore che, all’insaputa dei colleghi, fa parte della rete clandestina della Resistenza. Non è un cineasta militante, Truffaut, le sue prese di posizione sono poche e circoscritte (la critica alla gestione della Cineteca parigina in Baci rubati e il discorso del maestro ne Gli anni in tasca: cinema e bambini, le cose che gli stavano a cuore), ma ne L’ultimo metrò l’ostentato distacco dalla politica è bilanciato dall’impeccabile ricostruzione: la rievocazione della tragedia (la guerra, la fame, la segregazione, l’oscurità, la paura) passa attraverso la restituzione delle emozioni. Il cuore di Truffaut e del suo cinema sta tutto qui.

Forse non è un caso che a un film così grande, impegnativo, costoso ne segue uno più piccolo e intimo. Sulla carta, perché in realtà La signora della porta accanto è un capolavoro (torna in sala dal 5 febbraio grazie alla Cineteca di Bologna, restaurato in 4K). Che nasce da un amore: quello per Fanny Ardant, poco più che trentenne, di cui il regista s’innamora prima ancora di conoscerla, dopo averla vista in uno sceneggiato televisivo.

La signora della porta accanto (Cineteca di Bologna)
La signora della porta accanto (Cineteca di Bologna)

La signora della porta accanto (Cineteca di Bologna)

Tutte le donne di Truffaut incarnano l’idea stessa dell’amore (“Tutto quello che ho fatto l’ho fatto per le donne: perché le donne sono magiche” fa dire a un personaggio in Finalmente domenica!, il suo ultimo film): Jeanne Moreau in Jules e Jim e La sposa in nero (Le Tourbillon de la vie è il suggello di una storia fondamentale per entrambi); Marie-France Pisierin (per lei lasciò la moglie) e Claude Jade (per poco non la sposò) per Antoine Doinel; Catherine Deneuve in La mia droga si chiama Julie (con l’attrice fu vero amore, così devastante da costargli un esaurimento nervoso, ma successivo a quello con la di lei sorella Françoise Dorléac, la calda amante morta in un incidente nel 1967); Isabelle Adjani in Adele H. - Una storia d’amore (corteggiamento sfortunato: lei non ha mai ceduto).

Ma quando l’uomo che amava le donne riprende Ardant c’è qualcosa in più. Pensateci: sono quarant’anni che dentro ogni film d’amore, bello o brutto che sia, con Fanny Ardant c’è un film di Truffaut che non vedremo mai. È lei Mathilde, la femme d’à côté dal nome stendhaliano che sconvolge, tormenta, dilania Bernard (Gérard Depardieu, all’apogeo della gloria dopo L’ultimo metrò): si sono amati anni prima (“Sono io che ti amavo. Tu eri innamorato: non è la stessa cosa”), si sono fatti del male (“In fondo non so se ce l'ho con te più per il male che ti ho fatto che per quello che tu hai fatto a me”), si ritrovano perché lei si trasferisce con il marito nella casa accanto a quella dove il vecchio amante abita con moglie e figlio.

La signora della porta accanto (Cineteca di Bologna)
La signora della porta accanto (Cineteca di Bologna)

La signora della porta accanto (Cineteca di Bologna)

Nel loro primo incontro, nei loro sguardi che si scoprono nudi, c’è già il destino di un film che somiglia alle canzoni romantiche (“più sono stupide e più sono vere”), segue tutti i battiti del cuore (le scene al parcheggio, al circolo, alla festa...) e corteggia la morte. E che è puntellato – qui il colpo di genio, complici Suzanne Schiffman e Jean Aurel in sceneggiatura – da una narratrice interna, Odile, la signora che gestisce il tennis club: zoppica per ricordarci da subito che d’amore si muore, convoca il fantasma dell’amato Hitchcock (colui che dirigeva le scene di delitto come scene d’amore e viceversa, morto un anno prima: c’è un momento di ritorno dal cinema in cui Odile, Bernard e la moglie parlano del film che hanno appena visto, una sorta di Delitto perfetto), sentenzia (spoiler!) l’epigrafe della storia: “né con te né senza di te” (“ma nessuno chiederà il mio parere”).

La signora della porta accanto è uno dei più lancinanti e violenti film sul desiderio, implacabile e struggente come tutte le cose che hanno a che fare con eros e thanatos. Talmente violento da richiedere un altro cambio di passo, sempre con l’amata Ardant: Finalmente domenica!, irresistibile commedia gialla in bianco e nero in cui, quasi a rivendicare il distacco dalla Signora della porta accanto, “la morte diventa astratta” e “la vita non è un romanzo”. Un congedo non previsto: Truffaut è morto nel 1984, un anno dopo essere diventato padre di Josephine, avuta con Fanny Ardant.