Ho visto La sala professori (Das Lehrerzimmer) di Ilker Çatak, e sono rimasto vivamente impressionato. Innanzitutto per il tema che affronta e che riporta alla problematica dell’educazione scolastica, fortemente scossa dal malessere sociale dei giovani provocato dalla pandemia, che si riverbera con i fenomeni di violenza e di fragilità esistenziale su molte società del mondo, Italia compresa. In seconda istanza, mi ha anche folgorato per il linguaggio che il film adotta. Il regista, tedesco di origine turca, si era già misurato sui temi del mondo e del disagio giovanile, del dialogo interculturale, della ricchezza delle diversità e dell’integrazione culturale. La sua ultima prova ha evidenziato una ricerca linguistica personale che si origina da una conoscenza profonda degli stilemi della migliore e originale scuola tedesca.

L’ambiente è una scuola tedesca in cui si professa, in una situazione di interculturalità, lo statuto dell’apertura e del politically correct, ma che proclama allo stesso tempo la “tolleranza zero” di fronte ai casi che metterebbero in crisi il buon nome conquistato e la democraticità interna che ha come obiettivo la convivenza pacifica. La protagonista, Carla Novak, è un’insegnante di origine polacca, impegnata con i ventidue dodicenni che compongono la classe. Dei fatti spiacevoli (furti di denaro e di oggetti costosi) la pongono al centro del tiro di fuoco fra tensioni e ipocrisie in un gioco dove hanno un ruolo corale i genitori che si arrendono alle versioni dei propri figli; un collegio docenti in cui risaltano alcune personalità forti, pronte a difendere i propri diritti; e un collettivo studentesco convinto di cercare la verità senza però verificarla.

La sala professori © ifProductions / Judith Kaufmann
La sala professori © ifProductions / Judith Kaufmann

La sala professori © ifProductions / Judith Kaufmann

Tutto va in crisi quando vengono a scontrarsi opinioni e dimostrazioni, ipotesi e ragionamenti, posizioni e ripicche. Per risolvere la dinamica conflittuale che si è innescata non bastano le tesi delle scienze matematiche che Carla insegna (la scena iniziale dei numeri periodici e quella delle teorie di Talete sono significative a proposito). Anche le sicurezze subiscono forti scompensi e l’impegno per la costruzione armonica tra le parti va in rovina. Un’orchestra di “originalità” individuali che non approdano all’obiettivo della concordia desiderata. Il fallimento è una possibilità sempre più cogente e la responsabilità rischia di essere approssimativa o derogata, sia quella scolastica che quella familiare.

Ambigua è anche la struttura della scuola, ripresa nei suoi ambienti perfettamente organizzati, ordinati, pieni di vita, ma in contrasto le immagini dei locali vuoti, senza la vitalità dei ragazzi, indicano ancora la sconfitta. La sala dei professori è un’ulteriore metafora: un’agorà divisa tra posizioni e rivincite in cui si è perso di mira l’allievo. L’obiettivo non può e non deve considerare esclusivamente la conquista della simpatia degli studenti, ma ottenere la loro fiducia guadagnandosela con la fatica del giorno dopo giorno.

Carla nutriva il sogno dell’armonia, del rapporto democratico tra allievi e docenti che ispirasse l’impegno degli stessi. Un sogno chiuso in un chiasmo esaltato dalle inquadrature e dalla colonna sonora: l’ingresso in aula e la posizione di spalle dell’insegnante con le braccia aperte nella tipica posizione del direttore d’orchestra che dà il cenno dell’attacco, e l’Ouverture del Concerto in mi maggiore per orchestra op. 21 di Felix Mendelssohn-Bartoldy dal titolo evocativo Ein Sommernachstraum (Sogno di una notte d’estate) che accompagna il “fallimento” trionfale dell’uscita di Oskar sulla “sedia gestatoria”. In mezzo, per l’intero film, le dissonanze di violino e violoncello, stridenti, monocordi, disarmoniche, fastidiose a sottolineare il clima crescente di una realtà scomoda, problematica, spiacevole.

La sala professori © ifProductions / Judith Kaufmann
La sala professori © ifProductions / Judith Kaufmann

La sala professori © ifProductions / Judith Kaufmann

Scelta stilistica calzante a descrivere il fare indagatorio delle videocamere e della steadycam che seguono o precedono, accompagnano o si spostano su questo o quel soggetto ripreso a indicare il fare inquisitorio che caratterizza tutto il film. Prevalgono i piani a sottolineare il gioco delle parti e degli sguardi, i movimenti che non lasciano da sola la protagonista e i suoi interlocutori, utilizzando anche i piani sequenza che assegnano allo spettatore una visione privilegiata e interpellante, che inseriscono lo spettatore nell’evoluzione della storia invitandolo alla fine a esprimere la propria opinione senza nessuna opzione di astensione, perché è stato testimone coinvolto nell’evoluzione del dramma.

Dicevamo prima quanto il regista conosca i caratteri di un cinema che ha fatto scuola, nutrito dalle capacità della cinepresa della Kammerspiel. Sono gli anni in cui il cinema della Germania, nonostante la disastrosa sconfitta della Prima Guerra Mondiale, riuscì a interessare l’esausto pubblico tedesco con storie che ne raccontavano il malessere sociale, oltre che economico. Gli spettatori riconoscevano la loro esistenza immedesimandosi nei drammi sociali nel chiuso di una stanza, dove il movimento era assicurato da una cinepresa ormai libera dalla fissità della rigorosa regola dei 180 gradi - da non superare - di provenienza teatrale.

Anche se non ne ricorda l’ampiezza dei campi wendersiani, il film predilige quei movimenti fatti di lunghe sequenze del primo Wim Wenders, quello della Trilogia della strada per intenderci (Alice nelle città, Falso movimento e Nel corso del tempo), dove la scelta dei piani non era di tipo inquisitorio, ma voleva cercare la profondità dei sentimenti e delle emozioni dei protagonisti, in un cinema apparentemente senza grandi emozioni, ma carico di ricchezza interiore e perché no, di sfumature spirituali. Alla base della scelta dell’uso dei piani non c’è un’esigenza televisiva, ma la ricerca di profondità umana, carica di passioni ed emozioni, sottolineato da un utilizzo minimalista del montaggio. Anche la scelta del quadro si contraddistingue per l’opzione del proporzionato 1:1 delle foto polaroid, formato che ammicca ai fruitori dei social media e in particolare agli user di Instagram.

La sala professori, ©ifProductions_JudithKaufmann
La sala professori, ©ifProductions_JudithKaufmann

La sala professori, ©ifProductions_JudithKaufmann

Da tempo il cinema non si dedicava a raccontare figure significative del mondo scolastico; quest’anno ne sono stati prodotti due a poca distanza l’uno dall’altro. Entrambi concorrono in categorie diverse agli Oscar 2024, ed ambedue hanno saputo mettere in scena due differenti professionisti dell’educazione, onesti o quanto meno coerenti nella loro originalità e nel loro sogno. Oltre a Carla Nowak de La sala professori, interpretata da Leonie Benesch, l’eccentrico e umanissimo professor Paul Hunham, docente di un prestigioso collegio del New Jersey, raccontato in The Holdovers interpretato da Paul Giamatti. La prima con il sogno dell’armonia di un concerto; il secondo con quello dalla comprensione della storia come maestra di umanità e prosperità.