La Giulia grigioverde della Polizia parte. Dal finestrino posteriore, con la sua giacchetta di lino bianca, stretto tra due investigatori, Sordi si volta per lanciare alla moglie un ultimo sguardo, che raggiunge la sala e, oggi, il salotto: che mi succede? Che mi fanno? Lo chiedo a voi. Non è vero che Sordi era una maschera, come vorrebbe l’invidioso Manfredi, per sminuire lo spessore dell’interpretazione.

È vero che era capace di stampare istantanee di celluloide secondo un’iperbole riconoscibile. Come dice Giuseppe Pontiggia, sottolineando la varietà delle “persone” inventate da Sordi in un solo carattere: “questi personaggi non si sarebbero mai riconosciuti in un italiano”. Questa nuova partenza verso il destino dell’ingiustizia marcata dal volto come un timbro sulla richiesta di autorizzazione a rappresentarci, captatio benvolentiae di cui Sordi era un farabutto maestro.

Ricordate come si chiamava il candido geometra dell’errore giudiziario, residente in Svezia, arrestato alla frontiera italiana, con l’accusa di omicidio? Giuseppe Di Noi. Resuscitando secondo criterio (e mercato) l’impegno sociale seppellito un anno prima con Amore mio aiutamiIl presidente del Borgorosso Football Club, Sordi diventa l’italiano detenuto in attesa di giudizio, mentre nelle strade la lotta sociale e la contestazione studentesca moltiplicano l’esperienza quotidiana, anche superficiale, del carcere e in Sicilia la mafia ha già incominciato a sistemare impunita i giudici difficili (quell’anno, Scaglione, che morì con l’autista Lo Russo).

È evidente ancora oggi quanto la sceneggiatura sia riuscita a fornire al mattatore e al regista Nanni Loy la materia dell’esperienza psicologica e fisica del delitto d’errore, su cui si fonda la possibilità di accennare un eccesso di disgrazia in progress (il trasferimento al carcere di Sagunto, la rivolta, il manicomio criminale) e qualche bozzettismo.

Alberto Sordi in Tutti dentro
Alberto Sordi in Tutti dentro

Alberto Sordi in Tutti dentro

Se stiamo ai personaggi sordiani della giustizia, il magistrato con i capelli lunghi (simil De Michelis), gli occhiali a goccia e il mandato di cattura facile di Tutti dentro ('84) finisce nel dimenticato proprio perché sia la sceneggiatura che la regia (di Sordi) sono sottomesse alla dimostrazione di rettitudine di cui l’interprete voleva giovarsi per celebrare se stesso come castigatore dell’arrivismo dei faccendieri dell’epoca. Col pessimo risultato artistico, finì per non giovare alla sua causa.

Dieci anni prima di Detenuto in attesa di giudizio, Comencini inventò in Sordi Il commissario ('62) che condiziona la sua carriera per onestà nell'indagine sulla morte di un politico, un personaggio di dimensione grottesca da cui Sordi sembra prelevare l’amarezza sconcertata dell'uomo di fronte al potere per trasferirla al detenuto ingiustamente accusato.

Il geometra Di Noi nacque anche da un’osservazione dell’attore: “Ero andato in Svezia, perché ero fidanzato con la figlia del sovrintendente delle Belle Arti e si parlava dell’Italia, di certa gente imprigionata e poi innocente in quegli anni. Dice lei, una ragazzina che mi portava in giro: vuoi vedere le carceri ? Non mi sembrava ‘sta bellezza. Dice: ti faccio vedere una cosa. E mi porta davanti a un albergo: qui, mi spiega, vengono ospitati i detenuti in
attesa di giudizio, con le loro mogli, le compagne e i figli. Alla fine della giornata di lavoro, sono a disposizione del giudice che deve istruire l'indagine e decidere se hanno veramente commesso un reato oppure scusate, potete andare a casa. E allora io pensai subito a un italiano che viveva in Svezia, un geometra, che per un ponte caduto di cui non sa niente passa dall’albergo in Svezia alle carceri italiane”.

Nel 1971 i detenuti italiani in attesa di giudizio erano 12.000. Il clima sociale era caldo, non soltanto per l’autunno. Dopo Piazza Fontana ('69), che aveva avviato uno dei clamorosi casi di errore giudiziario risolto vent'anni dopo, l'Italia ebbe qualche difficoltà su vasta scala a individuare i colpevoli e restituire la libertà agli innocenti.

Articolo pubblicato sulla Rivista del Cinematografo di aprile 2003