"Da quando abbiamo annunciato la diagnosi di afasia di Bruce nella primavera del 2022, le sue condizioni sono progredite e ora abbiamo una diagnosi più specifica: demenza frontotemporale (nota come FTD). Sfortunatamente, le sfide con la comunicazione sono solo uno dei sintomi della malattia che Bruce deve affrontare. Mentre questo è doloroso, è un sollievo avere finalmente una diagnosi chiara ". Con questo comunicato stringato – condiviso su Instagram tra gli altri dall’ex moglie Demi Moore e pubblicato sul sito web dell'Associazione per la degenerazione frontotemporale – la famiglia Willis ci ha voluto aggiornare sulle condizioni di salute del 67enne attore americano, da diverso tempo ormai lontano dai riflettori. Commozione e attestati di affetto si sono subito riversati sugli account direttamente o indirettamente collegati alla star di Die Hard e del Sesto senso, mentre i media hanno prontamente ripreso la notizia. Fin qui la cronaca. In questa pubblica vicenda di un dolore privato c’è però qualcosa che necessita di un surplus di riflessione.

Tre elementi meriterebbero di essere approfonditi: il primo riguarda la pubblicazioni dei dati sensibili del malato. Noi europei abbiamo un regolamento per la privacy più garantista di quello americano, ma recentemente si è lavorato molto per allineare l’American Data Privacy and Protection Act (ADPPA) al GDPR di matrice europea. Tra i dati su cui è prevista la massima protezione da entrambi gli istituti regolamentari figurano proprio le condizioni di salute della persona. Anche se la fonte della pubblicità è un familiare stretto non pare possa profilarsi nessuna esimente al dovere del consenso prestato dall’interessato. La domanda dunque è 1) se in effetti Bruce Willis sia consapevole della comunicazione effettuata dalla famiglia e abbia dato il suo assenso 2) se la patologia psichica che ha colpito Willis non ne infici comunque la piena consapevolezza riguardo alla comunicazione dei propri dati sanitari. Per non incorrere in casi di emulazione involontari, che finirebbero per intaccare la sensibilità e l’attenzione verso i diritti degli ammalati, sarebbe bene che la famiglia chiarisca le modalità con cui l’attore ha condiviso la comunicazione sul proprio stato di salute. Solo per rimanere in Italia abbiamo sperimentato un caso simile con Monica Vitti, con la differenza che sulla malattia dell’attrice venne mantenuto il massimo riserbo fino al momento della morte.

L’altra circostanza che s’impone in questa dolorosa vicenda riguarda invece lo status attoriale di Willis. Qui in gioco ci sono dei diritti puramente immateriali, come può essere la reputazione codificata da un immaginario: l’eroe di Die Hard, l’Unbreakable dell’omonimo film di Shyamalan viene restituito alla sfera pubblica in una configurazione di sé radicalmente altra, cristallizzata in quella parola terribile e senza apparenti sfumature che è “demenza”. Anche qui è in gioco il fantasma, la sparizione del vero Bruce Willis dietro l’icona della sua sopravvenienza virtuale. In passato abbiamo assistito più spesso alla sparizione dell’icona nel privato della persona, che sceglieva di essere sottraendosi – “privandosi” - alla curiosità degli altri (è accaduto con Sean Connery ad esempio oppure, sempre per rimanere in Italia, a Lucio Battisti e Mina). La logica che sembra presiedere a questa configurazione ha molto a che fare con la dissoluzione degli spazi tra intimità ed esteriorità, reale e virtuale, che caratterizza l’odierna comunicazione mediatica, soprattutto di quella pilotata dai social. Con un elemento preoccupante di novità anche qui: l’indisponibilità, dunque l’irreperibilità, del soggetto dell’enunciazione.

Infine, una considerazione positiva. Proprio la pubblicità data alla vicenda di Willis, alla sua trasformazione da intangibile (super)corpo attoriale a figura (ancorché ineffabile) del disfacimento psico-fisico, ci costringono a fare i conti paradossalmente con quel dato di realtà di cui volentieri faremmo a meno di sapere: il rimosso della malattia e della morte. Si dirà che le cronache sono state di recente interessate da gente famosa alle prese con la pubblicità della propria malattia – è accaduto da noi con Mihajlović e Vialli – ma secondo una narrazione guerresca e talvolta esageratamente esemplare. Come se il nocciolo della malattia fosse in definitiva un test di resistenza su cui il destinatario dovesse provare il proprio valore e coraggio. Una specie di torneo rispetto al quale valorizzare l’ardore nella battaglia. Dimenticandone però l’esito. Il dato ineluttabile, confitto nell’uomo che si ammala e che muore. Su cui forse non è possibile costruire uno storytelling confortante ma un’antropologia più sana e consapevole sì. Un’antropologia a misura d’uomo.