Il film si ispira alla rubrica di Marco Patucchi, giornalista di “la Repubblica” che per tre anni ha scritto una specie di spoon river, dedicata ai morti per lavoro. Articolo 1 di Luca Bianchini, al cinema dall’11 dicembre con LSPG Popcorn, va oltre le statistiche (raggelanti) quotidiane, non è un documentario di inchiesta, tutt’altro, Tratteggia con cura ed empatia i protagonisti, con testimonianze che stringono il cuore. Sono tre episodi, Lucia. Raffaella e Sandro. “In realtà – confida il regista – volevo che Sandro fosse il primo. L’uomo dalle mani grandi come dice la nipote, forse la storia che mi ha scosso di più perché fino alla fine non si capisce che cosa sia successo”. Bianchini ci racconta l’assenza, attraverso il fratello Marco, gli amici e i colleghi della cartiera in cui lavorava da decenni. Le immagini del posto, in Toscana fanno da contraltare alla tragedia avvenuta a pochi mesi dalla pensione.

Come ha scelto le storie e ha convinto le persone a parlare?

È stata parte più impegnativa ed è durata quasi un anno. Mi sono avvicinato a loro con molto riserbo, a volte qualcuno non ce l’ha fatta a rivivere il passato e si è tirato indietro. Sono riuscito a costruire un percorso di dialogo che li ha portati a essere spontanei.

Nel primo episodio, dedicato a Lucia, dove siamo?

Vicino a Lucca. È una donna giovane, rimasta vedova con due bambini piccoli, di 2 e 5 anni. Il padre si chiamava Luca, come me, quando sentiva pronunciare il mio nome correva di corsa dalla mamma, per farsi allattare.

Un operaio stradale rimasto sepolto da una frana improvvisa.

Terribile, per Lucia è stato uno sbaglio, quel terreno non doveva essere toccato, era vicino al fiume quindi friabile. Avevano dei sogni, per i figli e per loro stessi. Lui aveva la sua impresa di costruzioni. Per lei è stato come un meteorite che ha colpito la sua vita e si è portato via tutto.

L’unica sopravvissuta è Raffaella, una storia che mette i brividi.

Mi ha colpito la sua forza. L’incontro con lei è stata una lezione vita. Nonostante l’incidente, un’ex camionista che dormiva tre ore al massimo, per viaggiare e portare la merce in tempo. Sin dall’inizio è stata una combattente, ha chiesto di essere pagata quanto un uomo, finché un giorno non ce l’ha fatta più: è svenuta ed è caduta. Il colpo l’ha paralizzata, ora vive su una carrozzella.

La sua forza si percepisce dalle parole che usa. Parla di mercato di lavoro, per battere la concorrenza devi essere presente, efficace, veloce.

È una donna straordinaria, che ha sofferto moltissimo e non nasconde il dolore, però al tempo stesso ha ritrovato la serenità. Mi ricordo di un altro camionista che mi ha confidato che la notte si svegliava di colpo perché pensava di essere alla guida del veicolo, alla fine si è separato dalla moglie.

Nell’episodio di Sandro, una ragazza del circolo dice: “Una persona esce di casa per lavorare e non torna più”. Di chi sia la colpa non lo so.

Penso che la responsabilità sia collettiva. Viviamo in un mercato di lavoro schiavista e credo più nella gente che si ribella che nelle leggi.

Il magistrato Bruno Giordano, ex Direttore dell’Ispettorato nazionale del lavoro, afferma che durante i tanti processi affrontati la cosa più ardua è la tristezza delle vittime, degli orfani, che rimane dentro a lungo.

Ho lavorato per più di un anno con il cuore gonfio di malinconia.