Una giovane coppia vorrebbe avere un bambino, ma le difficoltà sono solo all’inizio. La mamma di lui si sta ammalando, si comporta in modo strano. Riusciranno i due a trovare un equilibro tra i loro desideri e gli ostacoli dell’età che avanza? È questa la domanda che si pongono gli esordienti Ann Sirot e Raphaël Balboni in La folle vita, in sala dal 29 giugno distribuito da Wanted Cinema. Si tratta di un’opera prima intimista, legata alle emozioni e ai piccoli gesti che scandiscono la quotidianità. “Non è una storia autobiografica, è stata ispirata da alcuni eventi di carattere personale. Abbiamo sentito parlare molto degli effetti tragici della demenza, legata all’andare degli anni. A noi non è mai successo, però ne siamo stati spettatori. L’impatto umano è devastante, ti cambia per sempre”, spiega Ann Sirot.

Come lavorate sul set?

Raphaël Balboni: “Facciamo tutto insieme”.

Ann Sirot: “Ci prepariamo a lungo, facciamo molte prove. Quando giriamo, affrontiamo le esigenze sul momento, ma la maggior parte delle decisioni importanti sono già state prese. Raphaël si occupa anche del montaggio, quindi è coinvolto anche in fase di postproduzione”.

Quando vi siete incontrati la prima volta?

Ann Sirot: “Ero alla ricerca di un tirocinio, dovevo laurearmi in cinema. Raphaël stava realizzando un cortometraggio, così abbiamo unito le forze. È partita una collaborazione, un processo strutturato che solo dopo tempo ci ha portato a La folle vita. In mezzo ci sono stati sette corti. Si tratta comunque di un film con un budget abbastanza basso, è stata un’ottima palestra per il futuro”.

Raphaël Balboni: “Il passaggio al lungometraggio è stato naturale. Abbiamo mantenuto lo stesso gruppo di persone, lo stesso metodo. È stato facile, non è stato un salto complicato”.

Il tema principale è quello della malattia.

Ann Sirot: “È qualcosa che ci spaventa, di cui abbiamo paura. Alcuni iniziano prima, altri dopo. Noi abbiamo cercato di indagare gli sviluppi, mettendo in scena anche la speranza. Poi è qualcosa che non possiamo prevedere, davanti alla quale ci sentiamo impotenti. Al cinema lo vediamo spesso, come in The Father con Anthony Hopkins. I produttori però storcono ancora il naso, perché non è un argomento che garantisce gli incassi”.

Ho letto che vi affidate tanto all’improvvisazione degli attori.

Raphaël Balboni: “È vero. Prima mandiamo loro un testo senza dialoghi, in cui sono descritte solo le situazioni in cui si dovranno immergere. Un po’ studiano a casa, poi tutti insieme, incontrandoci una o due volte al mese. Intanto ci si evolve, non esistono paletti”.

Ann Sirot: “È sempre una sorpresa assistere alle loro reazioni, al processo creativo che nasce. Si costruiscono legami molto forti. Quando arrivano sul set, sanno perfettamente che cosa fare. È un flusso che lasciamo scorrere”.

Come definireste il cinema?

Ann Sirot: “Direi che è una finestra che ci offre una particolare visione del mondo e delle persone. Il cinema sta vivendo una transizione, non sappiamo che cosa ci aspetta in futuro. L’unica cosa che possiamo fare è non smettere di crederci. Spero che il pubblico tornerà in sala, come in Belgio. Abbiamo avuto una crisi legata al Covid, ma adesso ci stiamo rialzando”.

Il vostro film successivo Le Syndrome des Amours Passées è stato presentato in anteprima al Festival di Cannes.

Ann Sirot: “Si tratta di una commedia romantica. Due innamorati vicini ai quarant’anni provano ad avere un bambino, ma non riescono. I dottori non capiscono quale sia veramente il problema. E questo è l’inizio”.

Il tema della genitorialità è ricorrente nelle vostre storie.

Ann Sirot: “Penso che sia un buon modo per riflettere sugli ostacoli di oggi, specialmente quando in una coppia si tenta di fare un passo in più. L’obiettivo è mettere in scena delle scelte in cui ci si possa identificare, per poi proseguire con riflessioni profonde, come la malattia di un genitore in là con gli anni. Sono modi diversi di mettere l’amore alla prova”.