Aprire gli occhi, sentirsi soffocare, come se uno spirito maligno stesse mettendo in atto una diabolica maledizione. È la premessa di Pantafa diretto da Emanuele Scaringi. Racconta di una madre e una figlia. La piccola ha delle macabre allucinazioni, le due si trasferiscono in un paesino chiamato Malanotte. La bambina soffre di quelle che si chiamano paralisi ipnagogiche, a cui si somma una strana presenza che vuole portarla via. “Siamo partiti da analisi mediche, da alcuni studi dell’Università di Padova e Harvard. Si tratta di paralisi legate al sonno, difficoltà a respirare. Così siamo arrivati alla leggenda della Pantafa, una strega di origine abruzzese di cui si sa molto poco. In realtà è una figura comune nella tradizione folkloristica di alcune regioni d’Italia, e anche all’estero. È nato un horror con le nostre tradizioni popolari, sfruttate sempre pochissimo sullo schermo”, spiega Scaringi. Nel cast c’è Kasia Smutniak, il film è stato presentato in anteprima all’ultima edizione del Torino Film Festival.

Che cosa significa realizzare un horror in Italia?
Si rischia il manicomio, serve tanta incoscienza (ride, ndr). A parte gli scherzi, facciamo un lavoro da privilegiati. È sempre un grosso rischio, il genere viene considerato di serie B. Amo l’horror, richiede tanta preparazione. Con Pantafa voglio raccontare le difficoltà del rapporto tra madre e figlia. La complessità è nell’indagare temi profondi anche facendo paura. In Italia è qualcosa che si sta sviluppando nuovamente. È un po’ come il western: lo impari facendolo. Mi vengono in mente Bones and All di Luca Guadagnino, Piove di Paolo Strippoli. Il genere però deve essere sempre al servizio della storia che si vuole mettere in scena. L’horror in Italia fatica per una questione di industria. Non abbiamo la forza degli americani, non puntiamo a creare saghe. Dobbiamo evitare di copiare, alimentare una nostra identità.

Com’è stato il passaggio da La profezia dell’armadillo a Pantafa?
C’è sempre un mostro da qualche parte (ride, ndr). In mezzo ho lavorato su altri formati, come la serie di Bangla e L’alligatore. La profezia dell’armadillo era stato uno dei primi film a nascere da un fumetto. L’armadillo in qualche modo rappresenta un archetipo. La Pantafa incarna qualcosa di invisibile, è un monito.

Come si è avvicinato al cinema?
È stata sempre una passione, fin da quando ero piccolo. L’ultimo anno di liceo ho frequentato una lezione di Cerami su La vita è bella, poi seguivo gli incontri di Leo Benvenuti il venerdì. Venivo addirittura da fuori Roma. Lui leggeva una serie di soggetti e poi li spiegava, dando idee costruttive. È qualcosa che mi ha sempre accompagnato.

Chi sono i suoi maestri?
Gli anni Settanta mi hanno forgiato. Penso a Sam Peckinpah. Mi aveva colpito Un tranquillo weekend di paura di John Boorman, poi naturalmente anche Rosemary’s Baby di Roman Polanski. Una mia passione è un titolo spagnolo: Ma come si può uccidere un bambino? di Narciso Ibáñez Serrador. Mi ha influenzato molto.

Che cosa pensa della situazione della sala oggi?
Sarà difficile recuperare. Alcuni film per fortuna sono ancora un’esperienza. Però la pandemia ha messo a dura prova i cinema, la maggior parte della fruizione è ormai sul divano di casa. Si usano le piattaforme, le televisioni misurano sempre più pollici. È un peccato, anche perché teatri e concerti non sono in questa situazione. Bisogna trasformare ogni cosa in un evento, è l’unica chiave.