Per sostenere un incontro con Luis Buñuel (il termine “incontro” va inteso proprio nella sua accezione sportiva) bisogna avere almeno tre qualità: parlare il catalano, sillabandolo (è l'unico modo per superare lo scoglio del la sua sordità) porgergli in tempo il “la” per le sue ormai proverbiali micidiali battute. Possedere un fegato a prova di bomba (il Buñuelone – strano intruglio di vodka gin e rhum – è una sorta di rito dell'amicizia al quale non ci si può sottrarre). A questo punto si è soltanto all'inizio. Costringere il regista spagnolo davanti a un microfono è impresa ben più ardua che superare le ormai famose tre fatiche. Buñuel non ama parlare molto, tantomeno ascoltare (gli basta spostare la levetta dell'auricolare per isolarsi completamente).

Un uomo difficile, senza dubbio. Questo spiega le rare autentiche interviste che sinora ha concesso. Chi scrive ha avuto modo di stargli venti giorni accanto. “Bastano per conoscere un uomo?”. No, davvero. Eppure ci sono stati momenti in cui qualcosa – un sorriso un lampo negli occhi – ci ha dato l'illusione di aver conosciuto un essere quantomeno diverso da quello che le cronache dipingono. E allora le stravaganze, i paradossi, le proverbiali battute? Una vecchia posa surrealista. Ma almeno per quanto riguarda Buñuel dietro ogni sua battuta ogni stravaganza ogni paradosso c'è sempre qualcosa: una piccola ma autentica verità.

Signor Buñuel, ogni qualvolta si accinge a ritornare dietro la macchina da presa Lei dichiara: “questo è il mio ultimo film”. Lo ha detto almeno cinque volte in questi ultimi anni. Ormai nessuno Le crede più…
È un gioco, naturalmente. Mi diverte spiare le reazioni degli altri, di quelli che mi amano e di quelli che non mi amano. No, non smetterò di fare il cinema. Non voglio togliermi questo divertimento.

È un divertimento per Lei girare un film?
Quando si ama una cosa non è lavoro. Altro è fare un film per guadagnarsi da vivere.

Ha un particolare metodo di lavoro?
Non ho metodi, mi affido all'intuizione che d'altra parte mi lascia il gusto dell’imprevisto e la grande curiosità di verificare alla fine i risultati.

L'angelo sterminatore (Webphoto)
L'angelo sterminatore (Webphoto)

L'angelo sterminatore (Webphoto)

Ha avuto occasione di conoscere registi italiani?
Si, ma non ricordo i nomi. Ricordo però Vittorio De Sica. L'ho conosciuto a Città del Messico. Un uomo buono, forse un po' impressionabile. Una sera dopo la proiezione di un mio film era disfatto, mi guardava con un'aria tra la compassione e la rabbia. Ricordo che chiese a mia moglie: “Signora mi dica la verità: suo marito è un sadico, le usa violenze?”. Sì, De Sica è un uomo molto impressionabile.

Quali sensazioni prova un regista che arriva al successo all'alba dei settant'anni?
Tanta tristezza. Il successo è la fine di ogni illusione. E poi accade una cosa riprovevole; hanno tirato fuori additandoli come capolavori alcuni vecchi film dei quali mi vergogno dal più profondo del cuore.

C'è un film al quale è particolarmente legato?
Forse Los olvidados (I figli della violenza), quello che avrei voluto fosse: un racconto naturalistico interrotto con alcuni inserti irreali.

Quali registi ritiene più rappresentativi del cinema d'oggi?
Non so rispondere a questa domanda. Posso dire quali registi amo. Soprattutto Robert Bresson. Sinceramente mi commuove la religiosità e quel senso di infinito che circola nei suoi film. Poi Federico Fellini. Con Fellini ho un debito di riconoscenza. Mi dicono che abbia più volte detto che io sono il suo maestro. Lo ringrazio di cuore anche se non riesco a capire cosa gli avrei insegnato.

E Godard. Le piace Godard?
Godard è un furbo. Cerca di impressionare la gente. Lui non ne ha colpa. La colpa è di chi si lascia impressionare.

Tra i nuovi registi c'è qualcuno che le piace in modo particolare?
Mi piace molto Solanas. E anche Jancso. Ho visto L'armata a cavallo, un gran bel film.

Può fare una graduatoria dei più grandi registi?
Primo: Buňuel; poi: il nulla; quindi, ancora Buňuel.

Abbiamo visto di recente Tristana, il suo ultimo film. Cosa l’ha colpita in modo particolare nel romanzo di Perez Galdos?
La storia di questa ragazza alla quale amputano una gamba. Mi incuriosiva vedere come se la sarebbe cavata Catherine Deneuve nella finzione scenica.

Tristana (Webphoto)
Tristana (Webphoto)

Tristana (Webphoto)

l suoi ritorni in Spagna sono sempre più rari. Ma non sente nostalgia per la sua terra?
Tanta, preferisco stare lontano, il più lontano possibile. E poi se dovessi vivere a Madrid sarei costretto prima o poi, ad accettare l'invito a pranzo del Generalissimo. E questo mi metterebbe in grande imbarazzo, perché non ho un vestito adatto per l'occasione. lo non posseggo abiti da sera.

Eppure ricordiamo d'averla vista due anni fa a Venezia in un impeccabile smoking…
Era di mio figlio e mi stava maledettamente stretto…

Come trascorre le sue giornate a Città del Messico?
Quando non lavoro, e capita sovente, leggo. In particolare i libri che hanno scarso credito presso la critica. Ho fatto una singolare scoperta. Ci sono molte più verità in certi comunemente chiamati libercoli che non in quei libri che fanno la cosiddetta cultura ufficiale.

Le sarebbe piaciuto essere uno scrittore?
È stata la mia massima aspirazione. Ora non soltanto non so scrivere ma sono l'antiscrittore per eccellenza. E pensare che tutta la mia gioventù e buona parte della mia maturità l 'ho trascorsa con poeti e scrittori: Lorca, Salinas, Alberti. Valle lnclan, Breton, Eluard, Jimenez…

Di quella generazione siete rimasti soltanto tre: Lei, Rafael Alberti e Salvador Dalí. Ha occasione di rivedere i vecchi amici?
Con Rafael Alberti ci rivediamo ogni dieci anni o giù di lì. Con Dalí invece, non ci vediamo e non ci parliamo da quarantadue anni. Quarantadue anni di silenzi. Incredibile, vero?

Perché?
Quando uno tradisce l'amicizia non è degno di vivere nel ricordo degli altri. Per me Dalí è morto un pomeriggio di aprile del 1928 a Parigi dopo la proiezione di L'age d'or.

L'âge d'or
L'âge d'or

L'âge d'or

Va spesso al cinema?
Rarissime volte. Credo che il cinema non ha dato niente di nuovo da quarant'anni a questa parte. Zero in condotta e La corazzata Potëmkin sono ancora insuperati. Mi piace molto Keaton. Quando vivevo a Hollywood passavo le mie giornate a rivedere le sue vecchie comiche. Credo di averle viste almeno un centinaio di volte.

Durante il suo soggiorno in America ebbe modo di conoscere anche Charles Chaplin.
Non è un bel ricordo. Era i l 1940, non avevo un soldo. cercavo di piazzare qualche “gags”. Una sera qualcuno, credo René Clair, mi presentò a Chaplin il quale mi fissò un appuntamento per l’indomani. Aspettai quattro ore sotto la pioggia ma lui non si fece vedere. Ed io da quel giorno non lo cercai più. Ricordo che andai a scaricare casse ai mercati per mettere insieme i soldi di un pasto.

C'è un periodo di tempo della sua vita che rimpiange?
l quarant'anni. È stato l'epoca d'oro della mia vita. Mi entusiasmava tutto. ogni cosa era una scoperta: leggere un libro, ascoltare Beethoven, vedere un film…

Non le piace l’epoca che oggi viviamo?
Poco, anzi affatto. C'è troppa facilità in tutto. Troppi libri. la cultura si compra nei grandi magazzini. Basta premere un bottone per sentire Beethoven. L'uomo così si inaridisce, non crea più. Se uno mangia caviale tutti i giorni finisce per non gustarlo più.

Cosa l'infastidisce di più nel cinema d'oggi?
La pornografia contrabbandata per erotismo. Fare un film erotico è difficile. L'erotismo è una corrente che passa e non si vede, la si sente nell'aria.

E nella vita?
La normalità, o quello che solitamente s'intende per normalità. I veri mostri sono gli uomini e le donne incapaci di amare o di sbagliare troppo. Ogni volta che ritorna in Spagna ripete un singolare rituale: una passeggiata a Saragozza.

Cosa c'è di tanto interessante a Saragozza?
Un prete, padre Valentin Arteta. La meraviglio? No, non è il mio consulente spirituale. È un amico, soltanto un buon amico. Amo parlare con lui.

Di cosa parlate?
Un po' di tutto. Spesso di Dio. E allora sono discussioni accaloratissime e talvolta si finisce anche per litigare. Ma c'è sempre tra di noi una intesa perfetta, un profondo sincero rispetto reciproco.

Un'ultima domanda, signor Buňuel. Le si attribuisce questa frase: “Grazie a Dio sono ateo”. È autentica?
Mi si attribuiscono tante cose che io non ho mai detto né fatto. Quella frase non l’ho mai detta. Ho detto soltanto: “Sono ateo per grazia di Dio". Il che è diverso.

(*Critico, sceneggiatore e regista. L’intervista è tratta dalla Rivista del Cinematografo di gennaio 1971)