Scopri Jacques Tati. Il suo delle immagini di Marco Muscolino

Qualche tempo dopo l’uscita del suo film più ambizioso, Playtime (1967; Playtime - Tempo di divertimento), Jacques Tati è in Rai come ospite del programma Incontri. La puntata, messa in onda il 9 gennaio 1969, è introdotta da alcune dichiarazioni di spettatori francesi che, intervistati all’uscita di un cinema, criticano Playtime, bocciandolo a grande maggioranza come film che “non sembra di Tati”. Il resto della puntata, lunga quasi un’ora, ospita un’approfondita intervista condotta dal curatore del programma, Gastone Favero: Tati, non più giovanissimo, parla del suo modo di fare cinema, malcelando il timore che, dopo l’insuccesso di Playtime, forse non riuscirà a trovare le risorse finanziarie per girare un altro film.

Due anni più tardi, nel 1971, Tati riesce invece a concludere quello che poi resterà il suo ultimo lungometraggio per il cinema, Trafic (1971; Monsieur Hulot nel caos del traffico). Il pubblico televisivo italiano incontra nuovamente Tati, ospite di Canzonissima per ben due volte nel giro di pochi mesi. In entrambi i casi Tati si esibisce duettando con Raffaella Carrà, che lo presenta come mimo. Dapprima, il 6 gennaio 1971, Tati mima un uomo in autobus, poi un giocatore di calcio, e si congeda sussurrando: «Ciao». Quindi, il 23 ottobre 1971, Tati appare appena più loquace ed esibisce nuovamente le sue capacità mimiche, presentando questa volta alcune differenti tipologie di fumatori.

Queste due esibizioni, finalizzate alla promozione di Monsieur Hulot nel caos del traffico, mostrano un Tati poco a suo agio, costretto in un ruolo, quello del mimo da music-hall, che non gli appartiene più da oltre trent’anni. Quello che entra nelle case degli italiani in questi anni è insomma un Tati invecchiato e triste, che nulla ha a che vedere con il cineasta salutato da pubblico e critica come grande comico moderno fin dall’uscita del suo primo lungometraggio, Jour de fête (1949; Giorno di festa).

Monsieur Hulot nel caos del traffico (Webphoto)
Monsieur Hulot nel caos del traffico (Webphoto)

Monsieur Hulot nel caos del traffico (Webphoto)

Al successo folgorante ottenuto da Tati, confermato anche in occasione dell’uscita dei suoi due film successivi, Les vacances de Monsieur Hulot (1953; Le vacanze di Monsieur Hulot) e Mon oncle (1958; Mio zio), è subentrato un declino di popolarità. L’immagine che Tati restituisce di sé è quella di un artista solitario che, sentendosi dimenticato e respinto, sembra aver capito che passerà il resto della sua vita lontano dai set cinematografici.

La famiglia Tatischeff, al momento della nascita di Jacques, il 9 ottobre 19072, probabilmente non immagina per il nuovo arrivato un avvenire come attore, sceneggiatore e regista per il cinema. Jacques, che avrebbe poi deciso di abbreviare il proprio cognome in Tati, trascorre la propria infanzia a Le Pecq, il piccolo villaggio natale situato nella regione Île-de-France, il cui capoluogo, Parigi, dista circa 20 chilometri. Etichettato tradizionalmente come “regista francese di origini russe”, in realtà Tati dovrebbe semmai essere definito italo- russo-franco-olandese.

Da una parte, il padre, Georges-Emmanuel Tatischeff, è infatti figlio di padre russo, il Conte Dmitri, e madre francese, Rose-Anathalie Alinquant. Dall’altra, la madre, Claire van Hoof, è figlia di padre olandese e madre italiana, Teresa Maria Rizzi. Cresciuto in un ambiente borghese piuttosto rigido, Jacques, sedicenne, compie la prima scelta destinata a spiazzare il proprio ambito familiare: decide di lasciare la scuola. In effetti, pare proprio che il ragazzo non fosse fatto per gli studi: molte delle persone che hanno conosciuto Tati concordano addirittura nel dire che «gli mancava la maggior parte dei tratti che sono considerati in Francia come i segni esteriori dell’intelligenza».

Jacques si ritrova così a lavorare con il padre. Quest’ultimo prosegue l’attività di corniciaio d’arte avviata dal suocero, noto nell’ambito familiare per aver rifiutato tre tele che Vincent van Gogh, suo amico e cliente, gli avrebbe offerto per saldare alcuni debiti. L’impiego presso la bottega di famiglia rientra perfettamente, anche se in anticipo di qualche anno, nei piani dei Tatischeff: Jacques sarebbe diventato, proprio come il nonno, restauratore d’arte. L’apprendistato non entusiasma il giovane Jacques, che però proprio in questo periodo comincia forse a maturare un certo gusto per il “quadro”, fondamentale per la composizione delle sue future inquadrature cinematografiche.

Il servizio militare interrompe questo apprendistato, segnando una tappa importante nel percorso di emancipazione familiare: durante i dodici mesi in caserma, Jacques sperimenta il suo talento immaginativo improvvisando pantomime che – come avrà modo di approfondire nel corso della sua carriera artistica – si basano non tanto sui gesti dell’attore comico in sé, ma sulla capacità di quest’ultimo di rivelare la dimensione comica degli altri.