Alberto Sordi si sentiva a proprio agio in abiti moderni. Non aveva preferenze. Tutto gli stava bene addosso: il doppio petto alla Berlusconi, il “casual” del borgataro, la bombetta dell’aspirante inglese alla ricerca del Fumo di Londra. In un numero ridotto di film, cinque per l’esattezza (in due – Nell’anno del Signore..., 1969, e In nome del popolo sovrano, 1990 – non è il mattatore come avviene al contrario in Il marchese dei Grillo, 1981, Il malato immaginario, 1979, L’avaro, 1990), Sordi indossò vestiti d’altri secoli.

E, in quelle occasioni, assecondato dai registi fece in modo che assomigliassero ad abiti di scena. Quasi si trattasse di una festa mascherata. l film in costume di Sordi sono, infatti, quanto di più neutro, di più “spettacolare”, di meno storico si possa immaginare. Sul piano di giudizi storiografici, valgono quanto un musical hollywodiano, in alcuni casi le trame ricordano proprio i libretti dell’opera lirica. Il “falsetto”, che fu il tipico timbro della recitazione dell’attore romano e che sempre risaltava in un coro segnato dai dialetti, ha modo di esplodere.

Facciamo un esempio: nel film Nell’anno del Signore… l’apparizione del fraticello nella cella dei due condannati ha in sé qualcosa di surreale. Il monologo sordiano non è finzione di un preciso contesto storico (la Roma papalina del 1825). Nonostante determini un’impennata nella curva dell’attenzione (premio per ogni attore che ami fare bella figura), è paradossalmente estraneo a quella miscela di ardori risorgimentali, umorismo, buoni sentimenti, battute che rimandano all’attualità, caricature di clericali a cui tendeva il regista Luigi Magni.

Serena Grandi e Alberto Sordi in In nome del popolo sovrano (Ufficio Stampa Rai)
Serena Grandi e Alberto Sordi in In nome del popolo sovrano (Ufficio Stampa Rai)

Serena Grandi e Alberto Sordi in In nome del popolo sovrano (Ufficio Stampa Rai)

La recitazione degli altri interpreti, bravissimi, della commedia si colloca più o meno all’interno di un’idea di realismo con un’accentuata coloritura satirica nel caso di Ugo Tognazzi. La concione su ideali troppo impegnativi per un miserello, i suoi salti e contorsioni, quell’addormentarsi sul più bello di Sordi appartengono a un diverso registro espressivo. Direi che vengano dal palazzeschiano Codice di Perelà dove anche situazioni di tutta evidenza, come il congiungimento di due corpi, magari per impedimenti “tecnici” perdono ogni carattere di verosimiglianza.

Nel Malato immaginario e nell’Avaro di Tonino Cervi, al di là del richiamo inverecondo a Molière, Sordi non definisce un carattere o sottolinea il peso di un vizio (come avviene in molti dei suoi film ambientati nel ‘900). Evirato ogni compromesso d’ordine moralistico, esclude ogni ambizione storiografica, esalta il momento ludico, il gusto della mascherata, il richiamo della farsa. La Roma che gli sta dietro le spalle è un luogo dell'immaginario
(intellettuale e non popolaresco).

Quell’errare dei personaggi fra rovine e scorci salvatisi dallo scorrere del tempo individuato da Magni in Nell’anno del Signore… dà luogo al formarsi, inesorabile, di una quinta teatrale. Questo aspetto si rinnova anche ne Il marchese del Grillo, intrattenimento bene eseguito da Mario Monicelli, dove rutto pare posto al servizio di un burattino invadente (e simpaticissimo) e di un burattinaio che gli concede di vivere la più libera, anche se non la più bella, serata della sua vita di teatrante.

Articolo pubblicato sulla Rivista del Cinematografo di aprile 2003.