All’inizio mi ricordavo solo di una morte violenta. Era questo che mi evocava il nome di Rosario Livatino. Poi mi sono informato, ho studiato. Ho incontrato magistrati, letto libri. Serviva decifrare il contesto, l’ambiente. Il primo approccio è stato tentare di capire chi fosse davvero Rosario. L’immagine è di una persona molto schiva, attenta a non esporsi. Mi sono immerso anche nei suoi scritti. Lui doveva essere sopra le parti, stare lontano da ogni forma di associazionismo. Non avrebbe mai voluto che qualcuno dicesse di lui di non essere, di non apparire, sufficientemente indipendente.

Mi sono soffermato sulla sua fede religiosa. Mi ha sempre colpito una sua frase: “Quando moriremo, non ci verrà chiesto se siamo stati credenti, ma credibili”. C’è un profondo senso di coscienza, una dirittura morale forte. Per Il giudice ragazzino (film realizzato da Alessandro Di Robilant, ora ospitato alla IV edizione del Lecco Film Festival) sono volato in Sicilia, ho visto il luogo in cui è stato ucciso. E poi sono andato dai suoi genitori. È stato il momento più emozionante della mia vita professionale.

Era pomeriggio, faceva caldo. Mi ero tinto i capelli per le riprese, ma me li ero scompigliati, per non farmi vedere troppo simile a lui. Volevo che fosse un incontro privato, non era passato tanto tempo dall’agguato. Il padre era simpatico, estroverso. La madre aveva uno sguardo penetrante, intenso. Ho visto la stanza di Rosario, ancora intatta. Una parete era piena di videocassette, tutte catalogate. Era un amante del cinema. All’inizio credevo fosse una forzatura degli sceneggiatori, ma non era così. A un certo punto la madre mi si avvicina, mi sfiora la testa. E mi dice: “Lui i capelli li portava in questo modo”. Poco dopo il padre mi ha abbracciato, si è messo a piangere. È stato incredibile. Il fotografo ha provato a scattare, ma l’ho fulminato. Non volevo intrusioni nel dolore di queste persone.

Il giudice ragazzino © WARNER BROS
Il giudice ragazzino © WARNER BROS

Il giudice ragazzino © WARNER BROS

Anni dopo sono tornato. La signora era morta, col padre abbiamo visitato la tomba di famiglia. Si era creato un legame, anche con associazioni che curavano l’immagine di Livatino. Mi dispiace che la beatificazione sia arrivata solo dopo la morte di entrambi i genitori. Per loro sarebbe stato di grande conforto. Era figlio unico, non voleva far preoccupare nessuno. Non ha mai voluto la scorta. So quanto è difficile incarnare un uomo realmente esistito, con rispetto, senza urtare la sensibilità di chi è rimasto. L’obiettivo era essere discreti nel nostro lavoro. Mi ha arricchito da un punto di vista umano, mi ha dato tantissimo.

Livatino era molto duro con sé stesso, non si concedeva nulla. La sua immagine di giudice doveva essere perfetta, lontana da ogni possibile compromesso. Era onesto, rigoroso. Uno dei mafiosi coinvolti abitava nel suo palazzo. Abbiamo immaginato che Rosario aspettasse che il malavitoso uscisse, prima di aprire la porta di casa sua. Non voleva contatti sospetti. Mi sono immedesimato in una postura “chiusa”, nella curvatura delle sue ginocchia mentre camminava.

Era giovanissimo, ma esperto. Non solo ha combattuto, ma ha colpito duramente. Poi ci sarebbero stati Falcone e Borsellino. Qualche magistrato gli ha consigliato prudenza, lui ha risposto con il coraggio. Non accettava compromessi. Professionalmente conosceva benissimo la materia, forse nella vita reale era più fragile. Ma la determinazione era enorme. Le testimonianze durante il processo hanno permesso di portare alla luce meccanismi terribili. In qualche modo il lavoro di Livatino è continuato anche dopo la sua scomparsa.

Mi ha insegnato che nella nostra esistenza non dobbiamo mai perdere di vista la credibilità. Bisogna sempre essere coerenti con quello che siamo. Mai tradire il nostro modo di essere, per stare vicino agli altri e saperli ascoltare. È un valore assoluto, che ci spinge a trovare un’armonia tra la parola e i nostri gesti. Mai sostenere qualcosa di finto, Livatino ha sempre inseguito la verità. Serve un’aderenza, una capacità di essere trasparenti, che possa elevarci verso l’altro. Senza tentennare davanti agli ostacoli, nonostante le nostre imperfezioni.

Testo raccolto da Gian Luca Pisacane