Questo articolo è stato pubblicato sulla Rivista del Cinematografo di agosto 1994

La strada verso Pollara, punta estrema dell'isola di Salina che guarda le Eolie, più lontane Alicudi e Filicudi, si inerpica tortuosa attraverso un paesaggio sempre più verde e solitario. Dopo l'ultima curva, uno strapiombo di rocce aspre, una piccola cala, uno scoglio sul mare verde. I camion della produzione, dall'alto, sembrano modellini in mezzo a un deserto.

Sono gli ultimi giorni di aprile, ma qui è già estate. Bisogna lasciare la macchina, scendere a piedi, per raggiungere un vecchio casolare color rosa nascosto tra gli alberi: la casa di Pablo Neruda. Sul set de Il postino l'atmosfera è incredibilmente calma, senza le solite isterie, ovattata, quasi surreale. Il regista scozzese Michael Radford ha scelto questi luoghi ancora incontaminati per andare indietro nel tempo: rispetto all'ambientazione del romanzo di Skarmeta, nella Capri di primi anni '50, dove Neruda trascorse realmente, insieme a Matilde Urrutia, alcuni mesi del suo lungo esilio politico (e ai giorni di Capri il poeta ha dedicato pagine bellissime nella sua autobiografia Confesso che ho vissuto, edita da Mondadori).

Capri, provincia di Napoli. Napoli, provincia (universale) del Sud del mondo. Nella storia fantastica dell'amicizia tra il grande poeta cileno e il giovane postino Mario, figlio di pescatori del villaggio Isla Negra, che scopre da un giorno all'altro e contemporaneamente la poesia, l'amore e la politica, Massimo Troisi ritrova una visione del mondo – epica, romantica, tragicomica – che solo i sudamericani possono condividere con Napoli. Nel postino Mario, nella sua candida furbizia , nella sua ostinata timidezza, nella sua inestinguibile curiosità, ritrova tanta parte di sé.

È un film voluto a tutti i costi, al punto da acquistare egli stesso i diritti cinematografici e impegnarsi nella produzione con la sua società Esterno Mediterraneo (insieme alla Penta e a una esigua quota di capitali francesi), forse se avesse avuto tutte le sue forze, avrebbe diretto lui stesso il film. Invece chiama Radford, per “saldare” un antico debito, come ci ha spiegato il regista: “Gli avevo offerto il ruolo del protagonista di Another Time, Another Place (un prigioniero italiano che sul finire della seconda guerra trova prima un nascondiglio e poi l'amore presso una famiglia di agricoltori scozzesi. Il personaggio fu poi interpretato da un altro attore napoletano, Giovanni Mauriello, ndr). Lui non accettò, ma in seguito mi confidò di essersi rammaricato della sua decisione. È così che è nata la nostra amicizia”.

Il postino è però la storia di Troisi: nella sceneggiatura – che egli scrive insieme alla fida Anna Pavignano – Troisi trasporta il peso angoscioso della sua malattia. Con un completo rovesciamento rispetto al romanzo, non sarà più Neruda l'uomo alle soglie della morte, ma è il postino Mario il personaggio drammatico, destinato a un finale tragico.

“Don Pablo, mi sono innamorato”
“Non è grave, c'è rimedio”
“Don Pablo, se c’è rimedio, io voglio restare malato”

Di quella mattina trascorsa sul set ricordiamo soprattutto questo fulmineo scambio di battute tra Troisi e Philippe Noiret, Neruda. Nel tono sommesso, nella mimica enigmatica di quel “io voglio restare malato”, era scolpita l’inimitabile maschera dell’attore napoletano. Una maschera umoristica, in senso pirandelliano, sulla quale affioravano il “riso straziato”, l’ancestrale fatalismo, l’ossessione degli altri, del loro giudizio.

Durante le riprese, Troisi era teso, ma concentratissimo, il pensiero lontano, crediamo, dai battiti del suo cuore malato. Tra un ciak e l'altro lo vedevamo sedersi, tranquillo, parlare con il regista. Ma fu alla pausa del pranzo che avemmo la percezione del dramma: scaricata rutta la tensione, Troisi appariva come prosciugato, il volto scavato e terreo, due tecnici della produzione lo sorreggevano sino a una sedia all'ombra, le pillole, nessuna voglia di mangiare. E per contrasto, risaltava ancora di più l'inesauribile vitalità di Noiret che urlava “a manger, a manger!”.

Sulla via del ritorno, pensavamo che questa volta la coltre e li segreto intorno al film era davvero giustificata. Come pure le raccomandazioni di Cristiana Caimmi: “per favore, nessuna intervista a Troisi”. Davvero, non avremmo osato chiedergli nulla.