Non è il primo film di Gianni Amelio, Colpire al cuore (in onda questa sera su Rai Storia alle 21:10). Quando arrivò in concorso alla Mostra di Venezia del 1982, il trentasettenne Amelio aveva già girato vari lavori per la televisione. E alcuni tra questi sono davvero da riscoprire: La fine del gioco che rivela l’attenzione all’adolescenza (1970), La città del sole su Tommaso Campanella (1973), il seminale documentario Bertolucci secondo il cinema (1976), Effetti speciali che omaggia i classici della Hammer (1978), lo spendido Il piccolo Archimede da Aldous Huxley (1979). Ma Colpire al cuore è il primo pensato per il grande schermo.

Ed è proprio il grande schermo a dare forza e intensità a uno dei primi film italiani che, all’inizio del decennio degli Ottanta, ha il coraggio di fare conti con gli anni di piombo. Misurando la tragedia collettiva con il metro del melodramma, il genere che meglio esalta lo sguardo di Amelio (come si vede anche nel suo ultimo lavoro, Il signore delle formiche sul caso Braibanti).

Il film mette al centro il rapporto tra Dario, professore all’Università di Milano, e suo figlio Emilio, quindicenne intelligente e sensibile. Dario sembra avere un ottimo rapporto con gli studenti, tant’è che due di loro gli fanno visita nella casa in campagna, mentre Emilio, schivo e inquieto, osserva e fotografa i tre. Quando assiste ad un attentato e riconosce nel terrorista rimasto ucciso l’allievo di suo padre, il ragazzo resta profondamente turbato, si presenta alla polizia. Dario va su tutte le furie: perché?

Quella di Colpire al cuore (titolo bellissimo) è una storia crudele sulla ricerca della verità riguardo l’amore, dove l’incomunicabilità è il sintomo della frattura: tra un padre reticente e un figlio smarrito, tra un passato idealizzato e un futuro incerto, tra una generazione che non cede il passo al rimorso e un’altra che non sa articolare il desiderio di essere come tutti.

Colpire al cuore (Webphoto)
Colpire al cuore (Webphoto)

Colpire al cuore (Webphoto)

Un film che vive di presenze che sono assenze (un padre dalla doppia vita), di assenze che non sanno essere presenze (una madre che resta sullo sfondo, con le cuffie alle orecchie come se non volesse sentire la cronaca dell’orrore), di assenze che vorrebbero essere presenze (la terrorista nonché amante del padre) e di presenze disperatamente consapevoli di non poter essere assenze (il figlio). E la gelida fotografia di Tonino Nardi funziona per ossimoro: avvolge, perturba e ci accompagna negli abissi di una relazione.

Una tragedia rigida e sinistra, con uno stile secco, freddo, puntuale, dominata dal meraviglioso Jean-Louis Trintignant, perfetto nel calibrare finta imperturbabilità e inattesa ambiguità, e il giovanissimo Fausto Rossi, figlio dell’architetto Aldo e di Sonia Gessner (che nel film interpreta proprio sua madre e la stessa coincidenza tra realtà e finzione tocca alla sorella Vera), che tra i tanti adolescenti del cinema di Amelio forse è il più indimenticabile. Anche perché questo film resta il suo unico.