Uno sport elitario. Un’arte popolare. Ricchezza e talento, divismo e riscatto sociale: l’evoluzione di uno sport, il tennis, nato solamente qualche anno prima rispetto al cinematografo (1874 il primo, 1895 il secondo), e le numerose traiettorie che quella pallina ha saputo prendere sul grande schermo offrono la possibilità di una riflessione che travalica la semplice sfida, toccando politica, sociologia, filosofia. In maniera frontale, o meno, lo sport “inventato dal diavolo” (come sottolineato tempo fa da Adriano Panatta) diventa più volte metafora di qualcos’altro: viene evocato prima nel romanzo di Bassani (1962) poi al cinema (1970) da De Sica con Il giardino dei Finzi Contini, rettangolo di gioco dove ancora (segretamente) era possibile fuggire dalla follia delle leggi razziali del 1938, mentre molti anni più tardi, nel 2005, Woody Allen si ispira tanto nel titolo, quanto nell’allusione, alla casualità del fato che può determinare sia l’esito di un incontro che quello di un’esistenza: Match Point, “un anello resta sospeso per un attimo. Cadrà al di qua o al di là della rete?”…

E che cosa sarebbe accaduto, alla storia del tennis ma soprattutto alle istanze femminili di quegli anni, se il 20 settembre 1973 Bobby Riggs avesse battuto Billie Jean King? È questa, più di ogni altra, la domanda che suggerisce il fuoricampo del recente La battaglia dei sessi (2017), diretto da Jonathan Dayton e Valerie Faris e incentrato appunto sull’iconica partita che metteva da una parte il simbolo del potere e dell’arroganza maschili (“il maiale sciovinista”), incarnati dal 55enne ex campione e gambler incallito Bobby Riggs (Steve Carell) e la campionessa mondiale 29enne Billie Jean King (Emma Stone), promotrice delle istanze femminili e femministe, perennemente in lotta contro il sessismo e sostenitrice di una battaglia con le istituzioni del tennis USA affinché si riducesse il gender pay gap con i colleghi maschi.

La battaglia dei sessi
La battaglia dei sessi
Jessica McNamee and Steve Carell in the film BATTLE OF THE SEXES. Photo by Melinda Sue Gordon. © 2017 Twentieth Century Fox Film Corporation All Rights Reserved (Melinda Sue Gordon/Twentieth Century Fox Film Corporation)

Storia del tennis, sempre per rimanere sul versante femminile della questione, che ha dovuto poi imparare a fare i conti con qualcuno che ne ha violentemente ribaltato i connotati, elitari e bianchi, che fino ad allora ne avevano contraddistinto storia e “ragione sociale”: il tornado rappresentato dalle sorelle Venus e Serena Williams viene raccontato nel biopic Una famiglia vincente - King Richard, film del 2021 diretto da Reinaldo Marcus Green che è valso Golden Globe e Oscar a Will Smith (anche produttore, insieme alle due ex campionesse) per l’interpretazione di Richard, il padre delle due tenniste, che aveva sin chiaro dall’inizio quale sarebbe stato il loro destino. “Venus sarà la numero uno del mondo. Tu sarai la migliore giocatrice di tutti i tempi”: la prima vincerà 7 Slam, Serena addirittura 23, stabilendo il record assoluto nell’era Open. Edificante per statuto, certo, il film è soprattutto storia di riscatto allo stato puro (più volte viene ribadito dell’infanzia in Louisiana del padre, vittima di episodi di violenza razziale), esaltazione di quel sogno americano che attraverso l’affermazione (duplice) in uno sport tradizionalmente “bianco” diventa storia ispiratrice, “modello” da seguire.

Una famiglia vincente - King Richard
Una famiglia vincente - King Richard

Una famiglia vincente - King Richard

(Webphoto)

Mette di fronte invece due “modelli” agli antipodi Borg McEnroe di Janus Metz (2017), film che si poggia sulla leggendaria rivalità di due icone (interpretate da Shia LaBeouf e Sverrir Gudnason), partendo dalla leggendaria finale di Wimbledon 1980 (di fronte il numero 1 e il numero 2 del ranking mondiale) per compiere poi un percorso a ritroso andando in cerca del come, e del perché, lo svedese Björn e l'americano John diventarono in seguito Borg e McEnroe. Al di qua e al di là della rete il glaciale, controllato, sciamanico svedese IceBorg (mai soprannome fu più azzeccato) e l'iracondo, selvaggio, riccioluto moro, The Genius: da una parte la compostezza e l'eleganza, dall’altra l'esplosività e l'incubo di ogni arbitro del circuito internazionale.

Ma questa dicotomia così lampante e marcata era poi realmente così netta? Primo vero tennista-divo a livello internazionale, Borg sarebbe stato davvero Borg senza quell’acerrimo “nemico”, senza quell’accesa contrapposizione – soprattutto mediatica – con l’antitetico McEnroe? Che poi, per carità, le nostre cronache mondane erano già popolate anni prima dal fenomeno Panatta (unico italiano ad aver mai raggiunto il quarto posto nel ranking mondiale, record battuto solamente qualche settimana fa da Jannik Sinner), celebrato dalla docuserie di Domenico Procacci, Una squadra (2022), che rievoca la straordinaria impresa della Coppa Davis 1976 vinta a Santiago del Cile insieme a Bertolucci, Barazzutti e Zugarelli, con Pietrangeli capitano (altro successo che siamo riusciti a bissare solamente nel 2023). Impresa sportiva, quella del ‘76, ma che assumeva anche ben altri significati, dato il contesto, ovvero il Cile dittatoriale di Pinochet: Mimmo Calopresti, nel 2009, con La maglietta rossa raccontava in doc il gesto simbolico che proprio Panatta fece in occasione del doppio con Bertolucci.

Una Squadra
Una Squadra
Una Squadra

Storie vere, film basati su di esse (ma non mancano esempi di opere più fantasiose, seppur velatamente ispirate a personaggi realmente esistiti, come Wimbledon di Richard Loncraine del 2004, con Paul Bettany, che prende spunto dalla vicenda di Goran Ivanišević, nel 2001 trionfatore del torneo londinese partendo grazie a una wild card; o nel 1951 Hard, Fast and Beautiful di Ida Lupino, che si rifaceva al romanzo di John R. Tunis del 1930, American Girl, a sua volta vagamente basato sulla vita della star del tennis Helen Wills Moody), storie inventate (Il quinto set, 2020, di Quentin Reynaud, Challengers di Luca Guadagnino), fino alla spettacolarizzazione diretta data dalla recente novità della serie Break Point su Netflix (ecco che il processo tra elitarismo e reality può dirsi compiuto, anche sull’onda di un’indiscutibile popolarità modaiola ormai raggiunta dal tennis) che si concentra di episodio in episodio sui vari campioni e campionesse dei circuiti ATP e WTA seguendoli in vari tornei internazionali. In attesa del doc di Kapadia su Federer e di qualcuno che troverà mai il coraggio di tradurre per lo schermo Open, imprescindibile biografia di Agassi.