"Il cinema è uno dei modi più belli per riportare tenerezza e la dignità dell’altro in senso politico, un atto al contempo religioso e laico, che ci dà sollievo come uno psichiatra o un prete davanti a un mondo che sta crollando. Il riscaldamento globale non è un'idea lontana, né una fantasia. Noi stiamo vivendo la fine del mondo, come in Ricomincio da capo, da almeno 15 anni. Scientificamente tutti gli scienziati non pagati dalle multinazionali sono d’accordo. Cosa stiamo facendo per evitarlo?". Jonathan Nossiter presenta il suo Last Words, “un film sul coraggio di affrontare la fine del mondo insieme senza perdere tenerezza o speranza”.

Da giovedì 15 giugno in sala, distribuito da Cineteca di Bologna, e ispirato a un romanzo di Santiago Amigorena Le mie ultime parole, il film è una distopia apocalittica incarnata da un ragazzo e un anziano, una strana coppia di cinefili sopravvissuti alla devastazione dell’umanità che intraprende un viaggio, dalla Cineteca di Bologna ad Atene, in un mondo ridotto in macerie, alla ricerca della civiltà perduta.

Protagonista, all’esordio assoluto davanti alla macchina da presa, è Kalipha Touray: “Un ragazzo coraggioso che ha affrontato l'impossibile per essere in Italia, – spiega il regista – non tutti lo hanno accolto nello stesso modo ed è rimasto entusiasta della vita nonostante quello che ha passato. Quando ho visto in lui così tanto coraggio ho pensato che il film andasse fatto, così come celebro il coraggio di chi, come Donatella Palermo ha prodotto il film e contribuito alla sua realizzazione. "

Il giovane attore conferma: "Non è stato affatto facile all’inizio: era il mio primo film e ho lavorato subito accanto a grandi attori. Per me il set era come un primo giorno di scuola, non capivo esattamente cosa stesse succedendo, non sapevo cosa volesse dire girare un film. Ero confuso, mi guardavo intorno e cercavo di capire cosa facevano gli altri, di imitarli. Jonathan a volte si innervosiva, poi ho capito che mi diceva tutto per farmi sentire a mio agio".

Il cineasta statunitense conferma: “Una cosa è vera: è molto difficile far lavorare un non attore con degli attori, per loro può essere sconvolgente. La chimica è parecchio delicata da trovare. Con Donatella Palermo (produttrice del film ndr) abbiamo fatto per due anni e mezzo di casting per cercare un giovane attore che incarnasse il protagonista. Abbiamo esaminato molti giovani talentuosi, ma non c'era abbastanza sostanza in loro, né la coscienza di aver vissuto cose terribili senza essere diventati cinici o disillusi. Insieme a Christian Bonatesta, l’aiuto regista, allora, abbiamo cercato nei campi di rifugiati, nei centri per giovani che sono partiti dal l'Africa per il Mediterraneo. Finalmente ho trovato Kalipha: Ddal primo incontro non nascondevi il peso della tua vita passata. Ho capito subito che poteva essere lui al centro del film".

Co-protagonista e “amante” del giovane è Batlk. A impersonarla Charlotte Rampling, al terzo film con Nossiter, che conferma le qualità da predestinato di Touray: “"Kalipha è stato sin da subito straordinario. Noi attori cerchiamo di rendere la realtà in maniera più efficace possibile, di avvicinarci al massimo alla verità del personaggio, ma lui 'era' la verità. Kalipha ha vissuto realmente le cose che noi raccontiamo. La storia ce l'ha dentro di sé, dentro quegli occhi così espressivi".

L’attrice è entusiasta del suo ruolo sul set e della collaborazione alla scrittura con Nossiter: “Sono al terzo film con lui, mi ha fatto leggere il libro di Santiago Amigorena, e mi sono commossa. Siamo andati avanti per lungo tempo a discutere sul mio personaggio. Batkl ha preso molte forme diverse; è sempre molto difficile trasformare un libro in un film. In un libro le parole creano mondi che non vediamo, Jonathan è un regista visuale e il suo talento visivo ha permesso la trasposizione delle parole sullo schermo. Io, poi, ho insistito affinché ci fossero pochi dialoghi, affinché le parole venissero dopo i sentimenti e le immagini".

E sul senso del suo personaggio e del film, Rampling, a differenza di Nossiter che si schernisce (“Sul messaggio del film mi rivolgo a Ford. Se vuoi mandare un messaggio, ti rivolgi al postino”), è molto diretta: “Nel film si vede un mondo distrutto, ma con il mio personaggio e il suo sorriso, volevamo far vedere che c'è qualcosa di molto diverso, di ulteriore: l'amore, l'empatia, la comprensione verso gli altri. Per un film così profondo con un personaggio così profondo come il mio, che vaga come una scheggia impazzita, con una gravidanza oltre i sessant’anni, dovevo lasciarmi andare, seguire l’istinto. Nel film l’umanità è alla fine, ma il pianeta è molto più resistente di noi e ci annienterà molto, molto prima di noi. Abbiamo fatto emergere il profondo malessere per come viviamo, per come non curiamo, per come maltrattiamo il pianeta”.

Parole al miele anche di Nossiter verso l’attrice: “Charlotte è una grande artista, non solo un’attrice, ma anche una pittrice. La sua collaborazione alla sceneggiatura è stata preziosa e fondamentale. È stata durissima nelle critiche, ma le poneva sempre con intelligenza, per cercare di portare un'opera collettiva a qualcosa di più vitale, di più umano”.

Il cineasta, poi, si è dilungato anche sulla genesi del film: “Difficile spiegare come sia nato: è una storia d'amore. Ho letto un romanzo breve di Santiago Amigorena, che parlava della capacità della letteratura di ridare dignità all'uomo anche in circostanze barbariche. E piangevo di gioia ma anche di tristezza perché é così anche per il cinema, che muore nella forma in cui lo abbiamo conosciuto per 120 anni. Così ho fatto questo film perché tutto quello a cui avevo dedicato la vita sta scomparendo, per tornare all’atto politico collettivo di guardare una pellicola insieme a sconosciuti”.