Lo sport e la sua mitologia vivono di ricambi generazionali. È nell’ordine delle cose: si esce dal campo prima di diventare vecchi per lasciare spazio ad atleti più giovani. I più bravi hanno la fortuna di incastonarsi nell’immaginario collettivo, diventando metri di paragone per chi verrà dopo e traslocando dalla cronaca alla leggenda. È qualcosa che accade solo in parte con il cinema: se nello sport è l’impresa (la partita, il torneo) ad aprire le porte dell’olimpo a un atleta, per un interprete è quasi sempre il tempo a definire la differenza tra essere una meteora o una star. C’entra anche il pubblico, che trascende l’anagrafe, ma a contare sono soprattutto coloro che suppergiù hanno l’età dei loro beniamini: si condivide un orizzonte, ci si riconosce nei sogni e nei bisogni e si diventa grandi insieme, strada facendo.

È sempre accaduto e sta accadendo anche ora, in un modo che forse non si era mai visto prima: la Gen Z – i nati tra i tardi anni Novanta e i primi Dieci del Duemila – tende a formare community attorno a un pupillo, servendosi di un lessico incomprensibile a chi è più grande (curiosamente legato alla famiglia: basta farsi un giro sui social per scoprire che “mother” è utilizzato per celebrare una donna carismatica, “mio figlio” è un giovane beniamino da “proteggere” poiché “minuscolo”). Di norma sono meccanismi che si verificano con content creator, professione che si edifica sul rapporto stretto con la fanbase, ma tutte le personalità mediatiche sono coinvolte, comprese quelle sportive.

Se il tennis sta vivendo una renaissance soprattutto mediatica è anche grazie alla Gen Z che sta imponendo nuovi idoli, un po’ come con il cinema: alle prestazioni professionali si intrecciano le narrazioni social (i post non artefatti che simulano autenticità), le pubblicità (testimonial di brand che diventano seconda pelle), il dialogo (le dirette, le risposte ai post), i rapporti amicali con i colleghi (da cui i neologismi che suggellano le ship, cioè le relazioni desiderate dai fan).

Challangers sembra porsi al crocevia di questo discorso, con il cinquantaduenne Luca Guadagnino, vero narratore della Gen Z (dal lancio di Timothée Chalamet, sex symbol perché bello, gentile, talentuoso, empatico, e non macho, fino all’opera manifesto We Are Who We Are), che prende il tennis e due figure idolatrate da quella generazione, Zendaya (1996, corrispettiva femminile di Chalamet: la diva che non c’era) e Josh O’Connor (’90, grande attore che incarna l’estetica del “sad boy”) più Mike Faist (’92, sguardo furbo e malinconico). Un terzetto che profila l’attuale panorama dei tennisti in ascesa, dall’afroamericana Coco Gauff, (19 anni, l’erede delle sorelle Williams) all’amatissimo Carlos Alcaraz (classe 2003, che a 19 anni è diventato il più giovane numero uno del mondo).

Zendaya as Tashi in CHALLENGERS, directed by Luca Guadagnino, a Metro Goldwyn Mayer Pictures film. Credit: Niko Tavernise / Metro Goldwyn Mayer Pictures © 2023 Metro-Goldwyn-Mayer Pictures Inc. All Rights Reserved.
Zendaya as Tashi in CHALLENGERS, directed by Luca Guadagnino, a Metro Goldwyn Mayer Pictures film. Credit: Niko Tavernise / Metro Goldwyn Mayer Pictures © 2023 Metro-Goldwyn-Mayer Pictures Inc. All Rights Reserved.
Zendaya as Tashi in CHALLENGERS, directed by Luca Guadagnino, a Metro Goldwyn Mayer Pictures film. Credit: Niko Tavernise / Metro Goldwyn Mayer Pictures © 2023 Metro-Goldwyn-Mayer Pictures Inc. All Rights Reserved. (Niko Tavernise / Metro Goldwyn M)

Un po’ quello che sta accadendo, in Italia e non solo, con Jannik Sinner (2001), il più vittorioso italiano dell’era Open, attuale terzo nel ranking mondiale. La sua rilevanza sconfina dal tennis: è il golden boy dello sport tricolore – certo, fino a qualche mese fa era nel mirino della stampa di settore, considerato poco più che un reietto – e, al contempo, un fenomeno che rappresenta e consacra una generazione. A Sinner ci si arriva dopo l’appannamento di Matteo Berrettini (1996), che all’indomani della storica finale di Wimbledon 2021 sembrava il campione del movimento, salvo poi subire pressione e infortuni. Al di là dei trofei, Sinner veicola una narrazione più efficace del collega, già tutta contenuta nel video virale in cui lo vediamo a 10 anni a un torneo: il bambino che ha realizzato un sogno, il lavoratore indefesso che porta in dote l’umiltà, l’educazione, la disciplina, il senso del dovere, il rispetto per l’avversario.

Mentre commentatori pigri (se non in malafede) pontificano sui più giovani accusandoli di essere distaccati dalla realtà e sempre col cellulare in mano (un’accusa che è un boomerang), il carotino (così lo chiamano i fan affettuosamente) lascia parlare i fatti, il suo stile sobrio, il sorriso irregolare, l’atteggiamento antiretorico, la tenerezza da alieno. E crea, senza volerlo, un’esperienza cinematografica, dalle gare sublimate in kolossal all’immagine iconica di lui, un secondo dopo aver vinto l’Australian Open, steso sulla linea del campo con la racchetta in mano. Il firmamento della Gen Z è pieno di stelle. E l’ultima a brillare è quella di Luca Nardi (2003), il lucky loser che ha appena sconfitto sua maestà Novak Djokovic a Indian Wells.