Il Destino in persona è stato derubato del suo libro, sul quale ogni vicenda e caso degli uomini tutti era stato scrupolosamente annotato. Saltato il prestabilito, perdute le storie, a ripensare trame e finali per ciascuno, a riscrivere, ri-raccontare, rimettere in ordine o sfogliare e scompaginare il prescritto in assoluta libertà, è un bambino entrato in possesso del prezioso libretto. Questa la cornice degli episodi della serie televisiva Sogni e bisogni (1985) di Sergio Citti.

Era nato nel maggio di novant’anni fa il più bambino dei registi, l’affabulatore di storie “rotte”, l’autore di un cinema completamente a-retorico. Non quindi (soltanto) anti-retorico se è questa la postura di chi, conoscendo una retorica, sistematicamente la contrasta, la smonta, oppure, riconoscendola posticcia e ampollosa, le oppone una scarna sobrietà e sincerità espressiva; ma un cinema che ne sia del tutto, radicalmente e ab origine, immune. Libero, cioè, e del tutto fuori, da ogni enfasi sul “fare cinema” preoccupandosi della sua artisticità e di farla palese nello stile, nei temi, o dal cruccio di dover rendere visibile il livello di elaborazione formale, un cinema genuinamente sentito – e perciò intenso, autentico – e mai artatamente-volutamente esibito.

Storie scellerate (Webphoto)
Storie scellerate (Webphoto)

Storie scellerate (Webphoto)

Pasolini diceva che il cinema è la lingua scritta della realtà, ed essa è cinema in natura: entrambi sostanzialmente condividono lo stesso alfabeto illimitato di segni, entrambi esprimendosi “audiovisivamente” e in movimento. Quello di Citti, si può dire, era un cinema naturale come può esserlo il raccontare e farsi raccontare storie, ma con ciò non si intende che i suoi film si esauriscano nella sola narratività: si tratta del cinema più vicino – almeno in Italia – per tono e interessi, alla narrazione orale, popolare, fiabesca o crudele che sia. Il che ne fa, anche, per estensione, un’opera “a parte”, quasi internamente straniera al cinema stesso (e, di Citti come “straniero” del cinema italiano parlava anche un testo a lui dedicato da David Grieco, fra l’altro sceneggiatore di alcuni suoi film) se tradizionalmente il senso comune l’appaia all’altra forma espressiva tipica della modernità: il romanzo, indissolubilmente legato alla scrittura.

Tanto quanto, per contro, un film di Citti pare in profonda affinità con modi e toni del racconto orale di tradizione popolare (laddove il romanzo è, essenzialmente, borghese), e dunque contadina, operaia, sottoproletaria. Proprio di Citti come “lessico romanesco – e borgataro – vivente”, del resto, Pasolini si nutriva nella stesura di romanzi, racconti, sceneggiature, di fatto avvicinandolo al cinema, facendone il proprio aiuto regista e contribuendo di rimando a rivelarlo, in un certo senso, a se stesso per ciò che era: portatore sano – ossia inconscio – di una cultura, appunto popolare, naturale che poteva esprimersi cinematograficamente.

Si esprimeva per film dolorosi, anche estremi – come il soggetto del Salò che inizialmente avrebbe dovuto anche dirigere – per storie e personaggi ora gentili e ingenui ora crudeli e disperati e sempre, in ogni caso, “ruvidi”, restituiti cioè senza premura di delinearne le psicologie a tutto tondo. Ma, come accade appunto in quelle narrazioni orali che sono le fiabe, con attenzione precisa ai loro atti, incontri, funzioni, situazioni.

Ostia

Si può pensare ai tragici fratelli, Rabbino e Bandiera, protagonisti del suo esordio Ostia (1970), su sceneggiatura di Pasolini stesso. Personaggi per i quali, a differenza del Tommaso Pozzillo del romanzo Una vita violenta, non può giungere il riscatto rappresentato una coscienza politica (e del resto hanno anche assassinato il padre anarchico, buttandolo da una finestra), né la possibilità appena sfiorata di una redenzione (poi perduta) come quella che Accattone trovava in Stella. Sergio Citti racconta – qui come altrove – una “storia rotta”, perché irredenta, senza sbocco che non sia tragico e procede per giustapposizione di scene frammentarie, perché si produce in una periferia spettrale e immota, fatta di ruderi ed eternit, di campi e spiagge dove tempo e spazio sono collassati, nel cui orizzonte i protagonisti si scambiano frasi smozzicate o compiono atti senza scopo.

Del resto, la (probabile) prostituta che i fratelli prendono con sé, non è né oggetto di esplicite attenzioni sessuali né sarà dai due sfruttata (come appunto intendeva fare Accattone con Stella), e semmai sarà il detonatore dei conflitti tra i due. Insieme, la ragazza rende manifesta la loro solitudine e marginalità irrevocabili, il loro essere completamente inadattabili al mondo come tristi e ultimi residuati di una cultura arcaica-popolare ormai defunta, umanamente imbruttita.

Pure, come i due non hanno potere sulle proprie storie e azioni e vite, sono insieme anarchicamente fuori da ogni logica di potere, sono del tutto alieni e inassimilabili al mondo borghese, i paria che sempre ne sono respinti. D’altra parte, Pasolini affermava di aver potuto girare il Decameron a Napoli perché “il napoletano è una sacca storica”, dunque preservata dall’omologazione antropologica e sociale causata dal capitalismo industriale. In questo senso, “i napoletani hanno deciso di restare quello che erano e, così, di lasciarsi morire”.

Non molto diversamente, accade così ai personaggi di Ostia, che restano quel che erano e muoiono. Essi sono, insieme, gli ultimi residui di una cultura popolare fattasi incomprensibile, inutile, inutilizzabile nel mondo contemporaneo integralmente omologato alla cultura borghese di massa, ma, anche, i mostruosi primi frutti della “mutazione antropologica”, della completa perdita di valori e costumi autentici e arcaici, ai quali si sostituiscono in blocco consumismo ed edonismo. L’eternit e i ruderi, allora, la spiaggia e la prigione.

Mortacci (Webphoto)
Mortacci (Webphoto)

Mortacci (Webphoto)

Se in quegli anni Pasolini abiurava dalla Trilogia della vita constatando, fra l’altro, le derive prodottesi dalla strumentalizzazione dei propri film, lo strapotere di un’industria culturale capace di assimilare, tollerare, digerire tutto indifferentemente (compresi gli squallidi film del filone “decamerotico”), o faceva con Salò un film programmaticamente “perverso per protesta contro la perversione che è ormai dappertutto”, il cinema (più sanguigno) di Citti appare completamente inassimilabile, libero, non irreggimentabile.

Per la sua visione del mondo fatta di cultura popolare, per la disperazione che promana da un film come Ostia, per l’andamento nervoso del suo raccontare procedendo per giustapposizione di frammenti. Oppure, perché le sue Storie scellerate (1973) – che in questo senso potrebbe valere quasi come “meta-titolo” di tanto suo cinema – sono spesso crudeli e filmate con la schiettezza ruvida, ineducata, di chi non si faccia troppo scrupolo di comporre “belle inquadrature” o un montaggio fluido. Raccontate, però, con la leggerezza divertita di chi sia genuinamente e semplicemente curioso della gente, dei suoi “fatti” più o meno “decorosi”, di vergogne piccole o no tenute nascoste, delle assurdità e meschinità del quotidiano, risibili o esecrabili.

È ciò di cui sono fatti Mortacci (1989) e, prima ancora, Casotto (1977), dove l’ambientazione consente proprio di accedere a quel tanto di nascosto (o vergognoso, ilare, crudele, ecc.) che è nella vita quotidiana, denudato. Un camposanto-limbo coi defunti che chiacchierano, si condividono aneddoti, in un caso, nell’altro la cabina “collettiva” di uno stabilimento balneare. Entrambi sono luoghi in cui si mettono appunto a nudo le storie rotte (e appunto scellerate: del resto, nell’opera seconda di Citti, i protagonisti ne raccontavano tra una latrina “di fortuna” e la prigione papalina dove venivano poi rinchiusi), episodiche, di un’umanità grottesca fatta di traffichini, di gradassi o di ingenui.

Lo spunto di partenza, piuttosto dichiarato, di Casotto è Domenica d’agosto (1950). Se il film di Emmer poteva considerarsi come lezioso apripista di certo neorealismo rosa, non privo, però, di una buona capacità di captare i costumi di un’Italia che va faticosamente rialzandosi e ha semplicemente bisogno di aprirsi una parentesi settimanale di spensieratezza e speranza, quello di Citti guarda a un universo assai differente. A una fauna – è il caso di dirlo – d’umanità varia che per lo più appare invece “scostumata”, che va inteso alla lettera come “senza costume”, oltre che messa a nudo di fatto nella cabina.

Casotto (Webphoto)
Casotto (Webphoto)

Casotto (Webphoto)

Perché i personaggi di Casotto sembrano comportarsi appunto come spogliati di costumi, di “abito etico”, di principio. Alcuni non paiono avere altro scopo che la parentesi spensierata in sé, simpaticamente malandrini come i benzinai Proietti e Franco Citti che rimorchiano due ragazze a loro volta più interessate a una coppia di soldati culturisti e narcisisti. Atri, come le sorelle Melato, tentano di sedurre l’assicuratore Tognazzi per intascare la polizza sulla vita del marito dell’una e amante dell’altra. Soprattutto, in un modo o nell’altro, ognuno nasconde comicamente qualcosa: un personaggio la sua difallia, i benzinai i piedi sporchi. O è l’assicuratore che, mentre provoca le due donne da finto vizioso, indossa la cintura di castità; o sono gli stucchevoli e improbabili fidanzatini Croccolo e Marchand che goffamente cercano l’amplesso nella cabina per essere sempre interrotti dagli altri bagnanti.

E ancora, è il nonno grossolano di Paolo Stoppa che cerca di spingere la nipotina incinta Jodie Foster tra le braccia del sempliciotto Michele Placido – così da attribuirgli la paternità dell’indesiderata, nascosta gravidanza – e poi del più furbastro (ma anche credulone) Proietti. Sebbene sia complessivamente mordace – complice il soggetto di Cerami fresco di Un borghese piccolo piccolo – la rassegna delle più o meno piccole vergogne malamente nascoste di questa umanità varia, il tono affabulatorio di Citti non è in vena di condanne.

Con più saggezza e misura, semplicemente e con un gusto suo soltanto di certo grottesco, le mette a nudo, ne è curioso, sembra egli stesso stupirne come di fatti insoliti, lasciando che ci si presentino dall’interno della cabina. Spazio dove il mondo si mette tra parentesi, dove non c’è progressione narrativa e proliferano puri fatti e situazioni. In libertà, come potrebbe accadere in una narrazione orale aperta agli inserti e alle divagazioni continue, fitta di ripetizioni, di micro-eventi. E resa, come si accennava, in un modo piuttosto tipico nelle favole, ossia senza particolare riguardo alla costruzione psicologica “a tutto tondo” dei personaggi coinvolti, a vantaggio dei soli eventi e degli incontri. Ma effettuata da qualcuno che semplicemente abbia occhi e orecchi curiosi di cose e persone, dei loro casi, delle loro ossessioni e necessità.

Il minestrone (Webphoto)
Il minestrone (Webphoto)

Il minestrone (Webphoto)

Quelle primarie, come la fame, atavica, al centro del folgorante racconto picaresco de Il minestrone (1981). Tale è anche I magi randagi (1996), dove i tre protagonisti, alla fine della loro fiaba stralunata, sembrano intuire, con genuina saggezza e fede semplice, che nell’inatteso miracolo di ogni nuova vita appena nata può essere il tanto cercato Messia. Un bambino che detta nuove storie, vite, speranze, allora, un po’ come il figlio a lungo cercato da Rosetta in Vipera (2001), o quello che in Sogni e bisogni ne scriveva sul libro sottratto al destino in persona. Il fatto è che la cultura popolare sa che si raccontano storie proprio per differire o esorcizzare un destino che si riconosce fatalisticamente ineluttabile, come i due personaggi che in Storie scellerate continuavano le proprie narrazioni fino al patibolo e oltre, non diversamente dai defunti di Mortacci.

Quella cultura popolare che conosce il fatalismo, che ama trovare e raccontare favole grottesche, crudeli, gentili e così sa mitigarlo, ha avuto al cinema, invenzione per eccellenza moderna, la voce invece antica e bambina, e dunque unica, di Sergio Citti.