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Zvanì – Il romanzo famigliare
L’inizio è nella fine: il lutto s’addice alla famiglia Pascoli, i cui superstiti accompagnano il feretro del caro estinto, il poeta Giovanni, nell’ultimo viaggio da Bologna – dove, cinquantaseienne minato da cirrosi e tumori, muore il 6 aprile 1912: il giorno prima di Pasqua, un Sabato Santo – alla natia Castelvecchio. È nel principio che Giuseppe Piccioni – uno dei più sottostimati registi italiani – determina l’umore, il colore, la temperatura di Zvanì – Il romanzo famigliare di Giovanni Pascoli, il biopic pensato per la Rai (la scrittura di Sandro Petraglia e il passo apparentemente tradizionale sono al servizio del pubblico) ma portato sul grande schermo prima di arrivare sul piccolo.
E proprio al cinema, alla sua dimensione spettrale e fantasmatica, sembra appartenere davvero il dodicesimo lungometraggio di questo regista parco e sensibile, che nella quiete del crepuscolo fa risplendere l’ombra del giorno, come il titolo del suo precedente, bellissimo lavoro. Sempre accanto ai vinti della storia e solidale con chi sorride ai margini del quotidiano, Piccioni evita il santino laico (che sarebbe stato perfino offensivo considerando il profilo politico del soggetto) e rifiuta il ritratto agiografico per costruire un affresco familiare centrato nella vita e nell’opera di Pascoli.


Zvanì – Il romanzo famigliare
Dove il passato del protagonista (uno splendido Federico Cesari) non è solo rievocato – termine pertinente – dalla voce viva della sorella Mariù (Benedetta Porcaroli di ammirevole sottrazione), ma irrompe plasticamente a dirci quanto questo viaggio in treno sia, in fondo, una seduta spiritica. Non che sia un’intuizione originale (l’abbiamo vista, di recente, in Eterno visionario su Luigi Pirandello), eppure resta un’idea affascinante (a maggior ragione considerando la committenza), che configura questo treno come spazio simbolico in cui muoversi tra passato e presente, reale e onirico. E i fantasmi che infestano la carrozza, quasi a testimoniare quanto i vivi abbiano qualcosa di irrisolto con chi non c’è più, sono diversi da quelli che vediamo a terra, avvolti dal fumo della locomotiva, salutati dalla Mariù che ha fatto pace con quelle assenze, con le loro eredità e i loro effetti collaterali.
Attenzione al titolo: se Zvanì è l’epiteto domestico del poeta, allora non possiamo non leggere questo biopic come una corale intimista, un romanzo famigliare appunto. A Piccioni non interessa il sussidiario illustrato del tesoro nazionale, ma uno sguardo più focalizzato sul privato, sul dolore di un uomo interrotto: la morte del padre (“un tarlo che gli mangiava il cuore”) che spezza la famiglia innescando il declassamento economico e una scia di lutti (la madre, la sorella, i fratelli); la rivelazione poetica che avviene senza la retorica dell’ispirazione ma a partire dall’osservazione – perfino l’inaccettabilità – del vero (valga il momento in cui “nasce” La cavalla storna, un po’ nel solco del Giovane favoloso); il legame conflittuale con Giosuè Carducci le cui diverse posizioni ideologiche sono rese soprattutto sul piano umano; l’ostinazione nella ricostruzione del nido con le sorelle sopravvissute a costo di castrarne ambizioni e sentimenti (la più indipendente Ida, interpreta da Liliana Bottone).


Zvanì – Il romanzo famigliare
Asciutto (malgrado qualche commento musicale di troppo) nel suo indagare ossessioni e ambiguità, inquieto e malinconico, Piccioni orchestra il compianto di un uomo infelice, un poeta a disagio nel mondo accademico che rivendica l’identità contadina e un orfano bloccato da un lutto mai elaborato, ferito a morte da un desiderio d’amore eternamente represso. E, in questo film sospeso nel tempo e nello spazio, trova la misura di incastrando nella narrazione scene in cui i personaggi si rivolgono direttamente al pubblico nel vuoto di uno sfondo nero, incarnando le lettere inviate a Pascoli (le sorelle collegiali con abiti verginali) o rappresentando incontri impossibili (l’abbraccio con la madre).
Il dato intimo è sottolineato dal coinvolgimento di interpreti cari al regista in piccoli ruoli (Margherita Buy, Sandra Ceccarelli, Riccardo Scamarcio, ma c’è anche Fausto Paravidino come inedito D’Annunzio) e da un finale memorabile attraversato dalla struggente Mai più… Mai più, tra vetri e sguardi, occhiaie e crepuscoli.