Nel 1982, la giornalista Michèle Manceaux registrò una serie di colloqui con il vicino di casa, l’allora trentenne Yann Andréa che all’epoca partner dell’ultrasessantenne e già mitologica Marguerite Duras.

Una relazione considerata scandalosa da più parti, in primis a causa del divario anagrafico ma anche per il carattere dominante della scrittrice e l’omosessualità dell’uomo. Ma il discorso amoroso è anche uno spazio per riflettere su quanto quel sentimento possa avere a che fare con l’ossessione, confluire nella sottomissione, confondersi con la dipendenza.

“Non c’era stato niente nella mia vita di più fuori norma della nostra storia, di Yann e mia” disse Duras in un libro; ma stavolta a parlare è Andréa. E così, dando corpo ai pensieri oscurati forse dalla dilagante personalità della compagna, cerca di spiegare i motivi per cui intende recidere il legame e quelli per cui non vorrebbe uscire dalla prigione di una relazione tossica eppure travolgente.

È già tutto nel titolo, Vous ne désirez que moi (Non desideri che me, ma a livello internazionale circola con il più didascalico I Want To Talk About Duras), il film di Claire Simon presentato in anteprima internazionale al Bif&st, il Bari International Film & Tv Festival. E che parte proprio dalle registrazioni originali, trascritte in un libro, Je voudrais parler de Duras, pubblicato nel 2016 dopo la morte di Manceaux e Andréa.

La macchina teatrale, suggerita dall’elenco dei personaggi in apertura, individua l’azione nella parola, scegliendo coraggiosamente di lasciare che sia proprio la viva voce a ricostruire eventi, momenti, episodi. Sono poche le occasioni per configurare visivamente ciò che rievoca Andréa: l’epifania in una sala cinematografica dove Duras presenta la proiezione di India Song e conosce il fan ventenne, con cui inizia una relazione epistolare; un tipico vernissage che mette in luce l’isolamento di Andréa rispetto agli ambienti intellettuali dominati da Duras; gli incontri clandestini tra omosessuali in un bosco.

Anche a Manceaux è concessa una divagazione: a letto, in attesa del compagno, immagina Andréa e Duras che consumano attraverso una serie di acquerelli molto espliciti. Al di là delle parole fedelmente trascritte, infatti, non c’è posto per altre parole: quando Manceaux spegne il registratore, il sonoro viene meno. E così non sentiamo nemmeno la giornalista che parla con il compagno o ciò che i due protagonisti si dicono fuori dai nastri.

Vous ne désirez que moi si limita a mettere in scena le parole, affidandosi all’intesa tra gli interpreti e alla loro resa, efficace sia nella sempre imprevedibile Emmanuelle Devos sia nell’ottimo Swann Arlaud, entrambi consapevoli di essere corpi prestati alle voci altrui e funzioni di un racconto.

Non a caso gli altri interpreti sono ridotti a figuranti, dal compagno di Manceaux che passa di sfuggita e resta un po’ sfocato alla stessa Duras, qui ripresa di sbieco dietro una finestra. Ma Duras, voce e volto, appare nei filmati di repertorio quasi a voler rivendicare il titanismo descritto da Andréa, la sua presenza troppo ingombrante per essere coreografata da un’interprete in un contesto come quello ricostruito da Simon.

Nei fatti, il film si mantiene su una linea molto omogenea – anche troppo – e sembra soffrire un po’ questa claustrofobia verbale e ambientale (le interviste avvengono in casa di Duras, che resta sempre al piano di sotto) e a tratti rischia paradossalmente di non dare il giusto peso al diluvio di parole di Andréa.

Ma ci offre un ritratto forte e per certi versi inquietante sull’intimità di un rapporto torbido e straordinario, che l’uomo rappresenta anche nei termini di un’educazione sentimentale e sessuale: è Duras ad avergli insegnato come fare l’amore, perché farlo, se farlo. È un film sulla complessità del desiderio che consuma l’anima e dà un senso alle cose, sconvolge gli equilibri e ne crea di alternativi, erode i cuori e al contempo li esalta. È un film sull’amore, tutto qui.