SERIE DISPONIBILE SU AMAZON PRIME VIDEO

(2021) - 10 EPISODI

IDEATORE - Nicola Guaglianone, Menotti, Carlo Verdone

CAST – Carlo Verdone (Carlo), Max Tortora (Max), Anita Caprioli (Annalisa), Monica Guerritore (Sandra), Antonio Bannò (Chicco).


Sono due percorsi paralleli, quelli di Nanni Moretti e Carlo Verdone. Borghesi, romani, l’uno classe 1953 e l’altro 1950, esplosi più o meno contemporaneamente, nell’Italia di piombo abitata da giovani desiderosi di riconoscersi in storie capaci di interrogare il presente e rispondere alle istanze di un tempo inquieto. Se Moretti ha dato voce al disincanto post-sessantottino mettendo in scena l’insofferenza nei confronti dell’omologazione culturale e l’annaspamento sentimentale di ragazzi angosciati, Verdone ha studiato il quotidiano malinconico di una generazione alla continua ricerca di un posto nel mondo, restituendolo attraverso una serie di personaggi difettosi e stupiti di fronte al mistero femminile.

Due eredi della commedia all’italiana: da una parte, un iconoclasta ribelle e indisciplinato; dall’altra, un analista cosciente della tradizione ma autonomo. Agli inizi delle rispettive carriere, Moretti si è servito di un alter ego, interpretando un tipo che era sempre una variante di se stesso in grado di rappresentare una collettività, mentre Verdone ha investito nel virtuosismo recitativo proponendo maschere che insieme componevano un complesso mosaico umano.

In seguito, l’uno è diventato l’autore italiano per eccellenza, tra i pochissimi ad avere il controllo totale dell’opera nonché a essere (ri)conosciuti anche dai non cinefili, e l’altro ha raccolto il testimone della generazione precedente, entrando nel cuore degli spettatori che lo adorano e ne conoscono a memoria il repertorio. Del suo ruolo carismatico Moretti è fortemente consapevole, come dimostrano i film degli ultimi vent’anni, tutti volti a offrire non solo una visione cinematografica ma anche una sorta di guida morale. L’autore Verdone, invece, si è caricato del compito di ammonire gli italiani – suoi coetanei in primis – con ironia e fermezza, continuando tuttavia a ottenere attenzioni e consensi soprattutto come attore.

Tre piani e Vita da Carlo, gli ultimi lavori di questi due gemelli diversi, partono dallo stesso assunto: due settantenni o quasi – oppure: due venerati maestri, per di più icone culturali – si interrogano su un mondo con il quale non sanno relazionarsi, provando a mettersi in contatto con le generazioni dei figli (e dei nipoti) imparando un nuovo alfabeto emotivo.

Vita da Carlo, la serie in dieci puntate per Amazon Prime Video, costituisce una svolta nella carriera di Verdone, che dopo quarant’anni converge con Moretti nel campo dell’autofiction. È una questione di preposizioni: Vita da Carlo, infatti, e non Vita di Carlo. Un’apparenza autobiografica ma una sostanza finzionale che parte dalla verità: Carlo Verdone non è semplicemente il protagonista di un racconto in cui fa se stesso ma mette in scena se stesso, la sua rete di relazioni e il suo posto nel mondo, per restituirsi altro rispetto alle aspettative del pubblico, svincolarsi dalle convinzioni altrui, dalle pose e dalle posizioni.

© Gianfilippo De Rossi
© Gianfilippo De Rossi
© Gianfilippo De Rossi
© Gianfilippo De Rossi

Alla prima esperienza con il formato seriale, Verdone si mette in gioco e interpreta una terapia cinematografica – dieci appuntamenti? – che ragiona su teoria e pratica del divismo, identità e simulacro, immagine pubblica e ambizioni private. Il segno è già nell’incipit, con una fuga onirica che mette subito in campo l’ossessione di Verdone: essere riconosciuto come autore.

Nel sogno, Carlo vince la Palma d’Oro a Cannes con L’incrocio delle ombre, storia d’amore in un manicomio che ha scritto con uno sceneggiatore “impegnato”, e che, nella vita reale, sta per proporre al suo storico produttore, Ovidio (il riferimento è chiaro, no?), al quale è contrattualmente vincolato ancora per un anno. Che rispedisce la proposta al mittente: “Perché il pubblico dovrebbe andare al cinema a vedere un film del genere? Perché se vòle suicidà? La gente vòle ride'!” (lo interpreta, con attitudine trucida, il grande caratterista Stefano Ambrogi). Cosa darebbe, Ovidio, perché Carlo tornasse ai personaggi, pur tenendo conto dell’anagrafe: “Dopo ‘lo famo strano’, ‘lo famo anziano’!”, è il progetto che cova per la star della scuderia.

“Non ho il diritto di scrivere cose che non fanno ridere”, si lamentava lo sceneggiatore nevrotico ed esasperato interpretato da Jean-Louis Trintignant ne La terrazza, di cui Carlo sembra erede spirituale, anche nel rivivere il rapporto malsano tra imprenditore e autore, capitale e creazione. Il cuore di Vita da Carlo, scritta con Nicola Guaglianone, Luca Mastrogiovanni, Menotti e Pasquale Plastino, è qui: è l’autoanalisi di un artista prigioniero delle immagini da lui stesso create e dalle quali non riesce a emanciparsi agli occhi di un pubblico che pretende l’eterno ritorno dell’uguale.

Per Verdone, camminare nella città che ha immortalato con un’ironia pari all’amore vuol dire fermarsi per un numero incalcolabile di selfie, pacche sulla spalla, ripetizioni mnemoniche di citazioni. “Carlo facce i personaggi!”. Episodi che si verificano nelle situazioni più assurde, compresi funerali (tra l’altro partecipa a uno sbagliato, come uno Zeno Cosini qualsiasi) e incidenti.

E proprio assistendo a un piccolo incidente Verdone si lancia in una filippica contro il degrado di Roma che diventa virale e convince un importante politico (il cognome fa rima con l’attuale governatore del Lazio, l’aspetto somiglia a quello di certi leader settentrionali) a indicarlo come futuro candidato sindaco. “Lo famo sindaco!” titola Dagospia, vero potere. Lusingato eppure smarrito, Verdone intuisce che la campagna elettorale può essere una buona scusa per prendere tempo, aspettare la risoluzione del contratto e liberarsi dall’obbligo del successo. Ma davvero vuole diventare sindaco?

Vita da Carlo è uno spaccato del quotidiano di un divo – termine che nell’orizzonte romano assume tutt’altra dimensione – stravolto da un evento inaspettato come l’ascesa politica. Dalla realtà prende non solo il lavoro e il ruolo socio-culturale del nostro ma anche la composizione familiare (ex moglie da cui non si è mai separato per non dare un dispiacere ai suoceri, interpretata da Monica Guerritore, e due figli ormai grandi che continuano a orbitargli attorno, cioè Carolina De Angelis e Filippo Contri), la difficoltà nel misurare il privato all’altezza del contesto cittadino (c’è una farmacista, Anita Caprioli, che non sembra suggestionata dal vip), una splendida casa che sovrasta Roma.

© Gianfilippo De Rossi
© Gianfilippo De Rossi
© Gianfilippo De Rossi
© Gianfilippo De Rossi

Verdone è un grande regista di interni familiari, un architetto instancabile che nel raccontarne il lessico affettuoso e disfunzionale ha sempre considerato l’incidenza domestica (dai quadretti di Un sacco bello al finale di Io e mia sorella con la casa vuota fino all’appartamento condiviso di Posti in piedi in Paradiso, per citarne alcuni, senza dimenticare il memoir La casa sopra ai portici). Qui la dimora è una tana, pressoché l’unico posto in tutta la città in cui si sente al sicuro, protetto dai fan e dai media. Uno spazio dominato dalla presenza di una domestica che sembra un revival della Caramella di Tina Pica nei Pane e amore… (Maria Paiato, suprema teatrante), attraversato non solo dai rampolli ma soprattutto dal fidanzato della figlia, così stralunato da risultare buona controparte del protagonista (Antonio Bannò).

A differenza dei tre piani morettiani, il piano verdoniano è abitato da una persona consapevole che il mondo fuori è più grande, come si vede dal terrazzo che abbraccia tutta la grande bellezza romana. Alla luce dell’esperienza con Paolo Sorrentino, non è così peregrino pensare che nel meta-personaggio di Vita da Carlo ci sia qualcosa di Jep Gambardella: difficile non tornarci quando vediamo Verdone allungato sul divanetto, intento a fumare, perso nei pensieri, lambito dalla noia.

C’è molto, moltissimo di Verdone in questa serie, non tanto perché si mette a nudo, manie e abitudini comprese (la prescrizione dei farmaci, tema di un gustoso gag con il magnifico Max Tortora; il rapporto con il cellulare, con i numeri cambiati ogni settimana), ma anche per la volontà di riflettere sul suo statuto d’autore: la fissazione dei fan per i primi personaggi e i tiepidi consensi attorno agli ultimi film (“Ti sei un po’ appiattito: le solite cose, le medicine, l’amore…” gli recrimina un’ammiratrice), l’intenzione di svelare finalmente una sensibilità trascurata dal pubblico e la rivendicazione di una malinconia che è stata sempre presente al di là della prevalenza comica.

© Gianfilippo De Rossi
© Gianfilippo De Rossi
© Gianfilippo De Rossi
© Gianfilippo De Rossi

A ben vedere, d’altronde, non c’è film di Verdone con un reale lieto fine, perché la cifra di questo autore è proprio la capacità di narrare la vocazione alla sconfitta, esplorare l’amore in quanto bisogno più che sogno, indagare l’impatto della fragilità sociale sulle vite individuali, ricercare una possibile salvezza per andare avanti. C’è sempre una carezza, nell’opera di Verdone, c’è sempre la necessità di una consolazione matura e non estemporanea.

Pochi come lui sanno fare drammi in forma di commedia e commedie con sottofondi drammatici e Vita da Carlo somiglia molto al Verdone che abbiamo imparato a conoscere e ad amare: ci sono l’autocritica e la consapevolezza di sé, la malinconia e la comicità, il protagonismo e la riservatezza. Storia di un personaggio in fuga da se stesso, storia di un autore in cerca di se stesso.