Parafrasando la serie di e con Carlo Verdone, il nuovo film di Tizza Covi e Rainer Frimmel (in Concorso nella sezione Orizzonti a Venezia 79) si potrebbe chiamare anche Vita da Vera. Perché non siamo di fronte alla vita di, o perlomeno non solo: non si tratta di giocare con le preposizioni ma di ragionare su quanto la realtà plasmabile possa essere oggetto di una sostanza finzionale.

Vera mette in scena Vera Gemma a partire dalla sua immagine pubblica veicolata dai reality e dalla televisione, come si capisce bene dalla prima sequenza del compleanno del noto parrucchiere Federico Fashion Style: è lo sguardo dei registi, complici ma soprattutto guide, a emancipare quelle immagini dalla cronaca del cafonal, a portarci oltre la reiterazione di un immaginario degradato.

Ed è la stessa Gemma, nelle scene seguenti, a dichiararci implicitamente cosa dobbiamo aspettarci da Vera: lei interpreta se stessa in un contesto dal quale si sente costantemente giudicata e fraintesa (parole che ripete spesso), appoggiata sulla sua rappresentazione soprattutto televisiva, nascosta dietro la ricerca di un ideale di bellezza del tutto distante da quello vissuto sin dalla nascita (l’estetica delle donne trans).

Vera

Vera vive all’ombra del padre, il divo Giuliano, morto in un incidente d’auto nel 2013: da allora non guida più, si fa accompagnare da un acciaccato autista in giri a vuoto nella capitale (provini sostenuti senza illusioni, shopping forse per noia, visite a casa della sorella), e proprio in una di queste peregrinazioni romane investe padre e figlio in moto.

Dopo l’iniziale diffidenza, Vera si avvicina ai due, che abitano in piena periferia con la nonna, si affeziona al bambino e intravede nel di lui padre la possibilità di scoprire un mondo nuovo rispetto a quello che le offre il fidanzato ufficiale, un palestrato con ambizioni di regia che vuole sfruttarla come strumento per ottenere posizioni e conoscenze.

Vera racconta la parabola di una donna abituata a farsi usare dal prossimo e al contempo fermamente (disperatamente) convinta che le persone possano essere ancora gentili e sincere con lei. Portando in dote se stessa, i suoi look aggressivi ed eccessivi, la sua umanità fragile e tenera, Gemma si trasforma in una versione immaginaria di se stessa, una icona pop (il cappello da cowgirl, le pellicce, la camminata) che si reinventa al crocevia tra iperrealismo e melodramma, commedia di borgata e racconto di formazione.

Vera

Covi e Frimmel incardinano la narrazione sulla linea del rapporto della protagonista col padre, continuamente evocato (un uomo troppo perfetto, per bellezza e signorilità, per poter competere con tutti quelli delle figlie) fino a costituire una trappola e un freno per il percorso emancipatorio della figlia. Giuliano ritorna come effige quasi sacra che sormonta il letto di Vera, attore degli home movie dimenticati, presenza ricordata da fan più o meno sinceri quasi a sottolineare il divario con quella figlia così diversa.

Vera è cinema del reale che approda alla fiction in virtù del coefficiente di autenticità garantito dai personaggi in campo, materia ordinata dentro uno schema narrativo che, sì, specialmente nella seconda parte conduce la storia e i suoi abitanti su binari meno imprevedibili, anche per far quadrare i conti e dimostrare la tesi di autori e attrice.

Ma la scrittura non è una trappola e permette a questo film piccolo, eccentrico e sorprendente di ritagliarsi momenti di grande impatto, come la puntata al cimitero acattolico in cui Vera e la sua amica del cuore Asia Argento si trovano al cospetto della tomba del figlio di Goethe, un senza nome, ridotto a essere per sempre subordinato al padre e alla sua fama (“Un monito per tutti noi figli di”).