Fa i conti con la cronaca che nel frattempo si è fatta storia, Una donna chiamata Maixabel, che come Madres paralelas interroga i fantasmi di una nazione quasi spaventata a fare i conti con il proprio passato e forse abituata a scansare ciò che di perturbante persiste nella memoria del sangue. Ma se Pedro Almodóvar disseppelliva (letteralmente) i cadaveri dei desaparecidos della guerra civile spagnola, trovando nel mélo privato la chiave d’accesso all’elaborazione di un lutto collettivo, Icíar Bollain torna a un episodio drammatico della recente storia spagnola: l’assassinio del politico socialista Juan María Jáuregui, avvenuto nel 2000 per mano dell’ETA, l’organizzazione terroristica nazionalista che aveva come obiettivo l’indipendenza del popolo basco.

Più che ricostruire il delitto secondo gli schemi del period drama, Bollain preferisce arrivare all’oggi, proprio per enunciare teoria e pratica del dialogo, mettere in chiaro la necessità di una pacificazione nazionale in un’epoca di strisciante revanscismo, rivendicare il perdono come atto politico.

Una donna chiamata Maixabel
Una donna chiamata Maixabel

Una donna chiamata Maixabel

La donna del titolo è Maixabel Lasa, moglie di Jáuregui, che nel 2011, diventata ormai tra le figure più attive nella tutela delle famiglie delle vittime, accetta di incontrare Ibon Etxezarreta, uno degli assassini del marito. Un modo per immaginare una sorta di giustizia riparatrice, approccio che considera il reato in termini di danno alle persone, da cui l’obbligo per il reo di rimediare alle conseguenze lesive della sua condotta, con l’obiettivo di una soluzione il più possibile condivisa attraverso il coinvolgimento attivo della vittima, dell’offensore e della comunità civile, cercando faticosamente una conciliazione personale che possa essere testo base per un discorso nazionale.

Bollain riesce dove fallì Annarita Zambrano con Dopo la guerra: alla codardia della fuga preferisce il coraggio del confronto, al giustificazionismo di chi siede dalla parte del torto oppone il dolore di chi matura la consapevolezza dell’orrore. Il manicheismo non è contemplato perché è il punto di vista ad essere forte, incarnato dal carisma di Maixabel, una donna di sinistra che, al di là delle appartenenze partitiche, è tra le personalità più impegnate nel percorso di riconciliazione interna nei Paesi Baschi. Ciò che condividono la vedova e l’assassino è il dolore: lei ci convive impegnandosi civilmente, lui consumandosi (anche fisicamente) in carcere; lei sopravvive a una menomazione emotiva perché privata dell’amore, lui è uscito dall’ETA e dall’abisso della vergogna deve emergere da solo.

Una donna chiamata Maixabel
Una donna chiamata Maixabel

Una donna chiamata Maixabel

Attraverso un linguaggio accessibile che guarda ai tradizionali modelli d’oltreoceano, una forma squisitamente popolare senza perché fieramente civile, una sottolineatura emotiva che mette in armonia la potenza recitativa di Blanca Portillo (giustamente premiata con il Goya) e Luis Tosar con la coinvolgente colonna sonora di Alberto Iglesias, Una donna chiamata Maixabel colpisce senza edulcorare (“Preferisco essere la vedova di Jáuregui che tua madre” dice Maixabel a Etxezarreta, liberando il dialogo di retorica), commuove con compostezza (il finale comunitario curiosamente intonato a quello del coevo Almodóvar: nel coro c’è anche la vera Lasa) e sa farsi universale perché rivendica, sic et simpliciter, il primato dell’umano.