Nella Spagna socialista d’oggi si eseguono 40 mila sfratti all'anno. Più di 100 al giorno. É l’explicit con cui Juan Diego Botto, attore all’esordio da regista, chiude il suo (melo)dramma sociale con punte thriller presentato a Venezia ‘79, sezione Orizzonti e in lizza con cinque candidature ai Goya 2023.

Il regista pianta la cinepresa nella periferia di Madrid (En los márgenes, come vorrebbe il titolo originale annacquato dalla nostra distribuzione) per documentare gli sgomberi con gli occhi degli sfrattati. Cinema del reale, dunque, intessuto da più linee narrative destinate a intersecarsi in ventiquattrore: famiglie sul lastrico, lavoratrici povere, muratori a giornata, i protagonisti sono tartassati da un potere bancario vampiresco, il grande imputato di un finale (troppo) aperto perché consegnato allo spettatore con tutto il suo carico scottante di rancore e denuncia.

La prima vittima è la piccola Selma, prelevata in casa dalla polizia perché senza madre, via per lavoro. Ma il probo avvocato Rafa (un ispiratissimo Luis Tosar) trascinandosi dietro il riluttante figliastro Raúl, manderà a monte la gita scolastica del ragazzo per rintracciare la donna e scongiurare l’abbandono. Il dazio da pagare è, però, la rabbia di Helena, nauseata dall’assenza continua del marito durante la sua gravidanza.

Più o meno la stessa cosa che rinfaccia Azucena (Penélope Cruz, pure co-produttrice) anche lei madre, al suo Manuel (sempre Botto), operaio a giornata. Su di loro pende l’avviso di sfratto il giorno dopo, ma questa novella Onorevole Angelina madrilena s’è barcamenata da sola tra banche e avvocati, trovando negli assistenti sociali e nelle assemblee popolari l’aiuto che chiedeva allo sposo. Manuel, infatti, non crede né alla protesta collettiva, né al compagno di lavoro Germàn fuggito di casa dopo aver dilapidato il patrimonio della madre che, comunque, cerca la riconciliazione tempestandolo di chiamate.

Com’è intuibile, Botto ha imparato da Loach a menare le mani, tuffandosi nelle storture del tempo per gridarci che il re è nudo. Ma nel finale non riesce a evitare batticuori illanguiditi, sbilanciando i ruoli e sgonfiando, dunque, la polifonia narrativa e il respiro civile della storia.

Chiariamoci, la smania di puntare il dito contro il fallimento del sistema neoliberista, che crea masse sempre povere e sempre sfruttate è pregevole, come l’assunto che oggi la finanza è la vera politica (nell’etimo originale): le istituzioni, infatti, nel film non ci sono e se ci sono fiancheggiano le banche che calpestano il diritto alla casa. Difatti la poiteia si rappresenta con leggi sue.

In questa luce, per di più, la sceneggiatura (lo stesso regista e Olga Rodriguez) si fa apprezzare per la capacità di radiografare le vittime, entrando nella pelle dei personaggi e restituendone con esattezza angosce e desideri. Però Botto inciampa nell’errore tipico degli esordienti: mette troppa carne al fuoco e si dimentica di toglierla al momento giusto. Cioè quando i fili narrativi (troppi) gli chiedono di saldarsi e innalzarsi al livello di documento sociale:  preferisce rifugiarsi nel patetismo che sprizzano alcune sue creature (Azucena su tutte), bersagliandole oltre ragione di primi piani lacrimosi e avvilendo le mire di denuncia.

Insomma, Botto cerca la rivolta e trova la compassione, dichiara guerra e si scorda a casa la spada. Un conto è fare di tutto perché lo spettatore si sdegni e porti lo sdegno fuori dalla sala, un altro è accompagnarlo alla battaglia e girare i tacchi, stemperando la terribilità di quell’ingiustizia che, invece, l’attualità ci infligge senza pietà.