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© 2025 Lionsgate
Se c’è un regista a Hollywood fortemente legato al concetto di cinema glamour, camp e gustosamente kitsch, quello è Paul Feig. Sospeso tra marcato estetismo, scarsa attenzione nei confronti della scrittura – ma non dei materiali letterari di riferimento – e ancora orgogliosa femminilità e toni simil parodistici, il cinema di Feig è sempre rimasto fedele a sé stesso, nel bene e nel male. Infatti, per quanto i grandi incassi siano ben altra cosa rispetto a quelli ottenuti dal regista di Corpi da reato, Feig si distingue per una certa capacità, se non addirittura un talento, che pochi altri autori della medesima generazione sembrano possedere: ossia, l’intercettazione immediata dei trend letterari del momento.
A Feig, però, non interessano affatto i romanzi d’autore, quelli, per intenderci, dei grandi premi – Pulitzer, Booker e National Book Award – bensì i titoli virali, incessantemente discussi sui social e divenuti in breve tempo dei veri e propri must read. Si torni con la memoria a Un piccolo favore di Darcey Bell e ancora a L’accademia del bene e del male di Soman Chainani.


In occasione di Una di famiglia, il suo dodicesimo lungometraggio da regista, Feig supera se stesso, adattando il primo volume della trilogia The Housemaid, firmata da Freida McFadden, curiosamente allineata alla narrativa, o ancor meglio alla stilistica, del regista di Last Christmas: femminilità strabordante, linguaggio goffamente sofisticato, oltreché stereotipato, e cura morbosa nei confronti del brand, dapprima letterario e poi cinematografico, che McFadden ha indubbiamente generato e al quale Feig ha abilmente aderito. Ancora una volta, al centro della questione, due giovani donne, entrambe affascinanti, seppur in modo differente.
La prima, Millie, è interpretata da una sensuale e inutilmente solenne Sidney Sweeney (sarà un caso che la controversia dei jeans leghi tra loro costume e politica?), la quale si ritrova a fuggire da un passato turbolento che Feig non tarda a svelare. La seconda, invece, è Nina, stereotipo della giovane moglie modello: attraente, nevrotica, dolce, ma anche pericolosa. Ad interpretarla è un’algida e sprezzante Amanda Seyfried, sempre più dalle parti dell’orrorifico, per quanto impeccabilmente acconciata. Sulla prova di quest’ultima si potrebbe dire molto, a partire dal maldestro tentativo di rifarsi alla Mia Farrow di Rosemary’s Baby. Come detto, maldestro, se non addirittura tragico. A legare le due donne, una maestosa villa appena fuori New York e ancora l’affascinante – oltreché benestante – marito di Nina, Andrew Winchester (Brandon Sklenar): dapprima oggetto del desiderio, e poi chissà.


Una di famiglia, i cui toni restano sospesi tra il desiderio amoroso travolgente, favolistico seppur contemporaneo, di largo consumo, e ancora risibilmente erotico, tipico di Harmony, in contrapposizione e anomalo dialogo con l’immaginario apparentemente idilliaco e in definitiva angosciante, cupo, moralmente ambiguo e tossico dei romanzi di Gillian Flynn, rintraccia nel connubio tra goffaggine e ferocia il luogo ideale nel quale esprimersi, deragliando più volte fino a deflagrare.
Nel film di Feig non torna niente, o comunque molto poco, mantenendosi dunque fedele allo spirito letterario di McFadden. Nessuna pretesa, soltanto brividi – di piacere, o disgusto, che dir si voglia – e sadico divertimento. A garantirlo, il plot twist che spacca in due il film, rispetto al quale è preferibile tacere. Ecco perché quest’inattesa deriva sanguinosa e burlona del cinema di Feig non può che incuriosire e intrattenere.
Tra realismo tragico, virilità tossica, donne sull’orlo – e ben oltre – di una crisi di nervi, nuove potenziali eroine e ancora psicologismi contorti, Una di famiglia assurge a diventare il guilty pleasure per eccellenza di quest’anno. Restano due volumi da adattare. Sweeney è più in forma che mai, meno il torvo e sfuggente giardiniere di Michele Morrone. Le questioni in sospeso sono molte, e così anche i corpi, coi loro istinti, umori e deliri. Il franchise è servito.

