“È la prima volta che mi trovo a fare un film tutto ‘al femminile’ senza l’aiuto di qualche grande comico nazionale” dice Enrico Vanzina, settantatré anni a marzo, che con Tre sorelle si misura per la seconda volta con la regia. Dimentica, forse, di aver scritto Quello che le ragazze non dicono, garbata commedia rosa diretta dal compianto fratello Carlo che rinverdiva l’Emmer touch nella Milano d’inizio duemila.

In realtà, al netto delle precisioni, il veterano dimostra un approccio in sintonia con lo spirito del tempo e al contempo in continuità con una tradizione. È tempo di dare voce e spazi alle donne, sembra dire Vanzina, e svincolarle dal ruolo ancillare al comico maschio per liberare la loro carica umoristica e inserirle nell’orizzonte di una commedia romantica che dia anche uno sguardo sui costumi del momento.

In questo caso abbiamo due sorelle che, travolte da problemi personali, si rifugiano nella villa a San Felice Circeo per rilassarsi e ritrovare se stesse. A loro si aggiunge una massaggiatrice appena scaricata dal ragazzo e una terza sorella accompagnata da un bellimbusto. Si susseguono equivoci fino a un finale serenamente votato alla religione del volemose bene.

Tre sorelle ha un titolo che evoca Čechov e anche in questa colta citazione si rivela la quintessenza del cinema di Vanzina, un autore che coltiva da sempre buone letture e non ha mai nascosto l’ambizione romanzesca (si veda uno degli apici della sua filmografia, Sapore di mare, ma anche Le finte bionde).

Semmai, in continuità con l’instant movie Lockdown all’italiana (il suo esordio come regista) e Sotto il sole di Riccione (un’altra opera prima che però si è limitato a scrivere) c’è la malinconia consapevolezza di doversi restringere nel piccolo schermo (di Amazon Prime Video) per continuare a tessere la tela del dialogo con il pubblico.

Nel cinema dei Vanzina, infatti, possiamo leggere la storia del pubblico italiano, la graduale disaffezione alla sala, la scelta della televisione come mezzo privilegiato anche per la fruizione di film del passato, del presente come del futuro. E insieme lo scollamento da un sogno effimero, coincidente con la stagione d’oro del babbo Steno: quella del cinema inteso come specchio della società, capace di intercettare tendenze, ossessioni, manie, non-detti di un popolo dentro un meccanismo narrativo volto a svelarne ipocrisie e turbamenti.

In questo senso, con Tre sorelle, Vanzina fa quel che può. Affascinato dalla possibilità di raccontare un trio (anzi quartetto) di donne metropolitane, ne rincorre improvvisi turbamenti e innocenti evasioni, cercando di mettersi in connessione con una generazione che forse conosce solo in superficie. È un cinema probabilmente più vecchio che tradizionale, quello che orgogliosamente porta avanti, ancorato agli schemi di quando Vanzina era giovane rampante, come il racconto di borghesi molto ancien régime con attico vista Vaticano e domestico che parla in modo diciamo bizzarro e donne in carriera che annegano nei cocktail e finiscono a letto con l’attraente avventore incontrato al bar.

Non che gli manchi una sua elementare efficacia, ma è evidente l’ancoraggio a modelli del passato che fa emergere un sorridente smarrimento nei confronti del presente. Perfino un must dell’opera dei fratelli, l’inserimento delle hit musicali, lascia qui il passo al ritorno alla colonna sonora di Umberto Smaila. A suo modo è la chiave del film: Vanzina, vecchia volpe, è molto curioso ma ama filtrare la realtà attraverso uno sguardo rétro, dentro un mondo che certo ha le sue magagne ma è tutto sommato idilliaco (la rappresentazione del Circeo arriva dritta dagli anni Cinquanta).

E ci crediamo davvero che lo squisito cinefilo voglia intestarsi il revival della screwball tanto amata – o perlomeno alla Notting Hill, spesso citato come riferimento – ma più dell’aderenza a un modello emerge soprattutto la devozione nei confronti dell’intrattenimento leggero.

Se non fanno tappezzeria, i maschi sono tipi sostanzialmente evitabili, a parte un ragazzino, e l’affetto è tutto per le ragazze: Giulia Bevilacqua si conferma commediante piuttosto sottoutilizzata, ma le punture al cinema d’autore messe in bocca a Chiara Francini rasentano la noia e risultano comprensibili solo a chi è del settore.