Nove anni dopo il divisivo Under the Skin, il regista britannico Jonathan Glazer consegna The Zone of Interest, liberamente ispirato al romanzo omonimo di Martin Amis, in Concorso al 76. Festival di Cannes.

Il dramma al contempo straniato e ponderato, agghiacciante e serafico inquadra il famigerato comandante di Auschwitz, Rudolf Höss, e la moglie Hedwig, che vivono con i figli e la servitù in una villetta con giardino ai margini del campo: si capisce, quella vicinanza, meglio, contiguità è la sineddoche spaziale dell’aberrazione dell’Olocausto, ma appunto viene data senza colpo ferire, senza Soluzione (finale) di continuità.

Le ciminiere mandano incessantemente in cielo gli ebrei, le esecuzioni sono a ciclo continuo, e Höss, incarico che lo esalta, dovrà presto supervisionare l’eliminazione o il lavoro nei campi di centinaia di migliaia di ebrei ungheresi su comando di Hitler e Himmler.

L’uomo è tutto casa, forno e famiglia: porta al lago i congiunti, ha cure e premure, perfino riceve (o subisce) i grugniti scherzosi della moglie, si ferma a tessere le lodi dei cani, telefona “come stanno i bimbi?”, è sempre gentile e inappuntabile – salvo un vomito rivelatore.

Se non la banalità, la familiarità del male: casa e ufficio, pertinenze dell’orrore; legami di sangue e cenere per la serra, contingenze dell’orrore; un’unica zona di interesse. E l’interesse è quello, come gassare, soprattutto – idea partorita a una festa di SS e immantinente comunicata alla consorte – se il soffitto è alto?

Poggiandosi ideologicamente sulle musiche, contrappunto e contrappasso insieme, di Mica Levi, Glazer sceneggia in solitaria prendendo da Amis quel (poco) che gli serve, dirige bene Christian Friedel (Il nastro bianco di Michael Haneke) e Sandra Hüller (Toni Erdmann di Maren Ade) e girando in situ in Polonia e Germania prende l’Olocausto per lo spazio, tanto che all’inizio siamo portati a credere a una distopica ucronia, a un Reich vittorioso arrivato fino a oggi.

Lo spettro è quello del primo Yorgos Lanthimos, dura poco, ma non è assolutamente peregrino: la poetica limitrofa della spazialità ha conseguenze analoghe sul tempo, che appunto raccorcia stilisticamente in senso sincronico, sconfessando la diacronia della Storia e paventando nella fotografia dell’ottimo Lukasz Zal (Cold War) il qui e ora, ovvero una attualità neonazista anziché il (film in) costume su Höss e SS.

Non cambia luci Zal quando nel finale ci consegna l’Auschwitz attuale sotto le cure delle donne delle pulizie: una manutenzione, anzi, una pulizia che pur incolpevole (?) fa accapponare la pelle. Siamo ancora contigui, solubili all’orrore della porta accanto?