Certe volte il cinema è bizzarro. Perché capita che nel giro di neanche 24 ore ti metta di fronte a due film completamente distanti, per racconto, ambientazioni, periodo, eppure così radicalmente vicini.

E così, dopo il polar umanista di Oelhoffen (Frerès Ennemis), film che non può non aver fatto pensare ad una matrice molto prossima alla poetica di alcuni lavori di Jacques Audiard, ecco che la Mostra di Venezia ospita proprio la nuova opera del regista del Profeta e Dheepan, The Sisters Brothers, western ambientato nel 1851 e incentrato – guarda caso – su due fratelli, che di cognome fanno Sisters, ovvero “sorelle”.

Sulle loro mani scorre il sangue, quello di criminali o innocenti in egual misura, perché per vivere Charlie ed Eli Sisters sanno fare solamente questo: uccidere.

Assoldati, ancora una volta, dal losco commodoro (Rutger Hauer, un paio di pose, entrambe silenziose, la prima lo scorgiamo dietro ad una finestra, la seconda in una bara), i due si mettono sulle tracce di un detective (Jake Gyllenhaal) impegnato a seguire un uomo (Riz Ahmed) che deve prima essere bloccato. E poi, ovviamente, fatto fuori.

Dall’Oregon alla California, il viaggio non sarà solamente uno spostamento di natura fisica. E seppur rifuggendo la più ovvia mitologia insita nella cinematografia western, Audiard trasla quell’anomalo romanzo di formazione firmato da Patrick DeWitt (su cui il film è naturalmente basato) in un anomalo “on the horses” che guarda sì ad esempi recenti quali Hostiles o Le tre sepolture ma operando uno scavo ancor più intimistico sulla natura dei rapporti umani. E sulla possibilità, o meno, che la natura degli uomini possa mutare a seconda delle prospettive in campo.

Caccia all’uomo e caccia all’oro: Audiard per tutta la prima parte del film sembra voler costruire una sorta di doppio buddy-movie, con questo strano gioco delle coppie Reilly-Phoenix / Gyllenhaal-Ahmed, sfruttando gli evidenti contrasti in gioco, maggiormente evidenti per quello che riguarda i personaggi dei due fratelli. Uno, Charlie, pragmatico e senza fronzoli, è nato per uccidere e per sbronzarsi; l’altro, Eli, sembra invece più incline a farla finita con quel tipo di vita, è aperto al nuovo, al punto di acquistare anche uno spazzolino da denti (avete mai visto un western in cui qualcuno si lava i denti?...), porta con sé uno scialle lasciato in eredità da un’amata di cui sapremo nulla di più, si affeziona al proprio cavallo neanche fosse suo figlio: così lontani, così diversi (anche fisicamente, non a caso), entrambi però cresciuti all’ombra di un padre violento e ubriacone.

È un discorso legato alla violenza dei padri fondatori contrapposta ad un’utopia di civilizzazione e realtà democratica: Hermann Kermit Warm (Riz Ahmed), l’oggetto della caccia iniziale, è un chimico che ha scoperto una formula in grado di far brillare l’oro che si nasconde tra le pietre dei letti dei fiumi. Morris (Gyllenhaal), il detective assunto con il compito di rallentarne la corsa e tenerlo fermo in attesa dell’arrivo dei due fratelli, un uomo, anche lui, fuggito da un padre non proprio irreprensibile.

Il percorso di ognuno di questi quattro personaggi conduce ad una sorta di illuminazione. Perché non è tutto oro quel che luccica, ma ogni tanto si può anche credere che sia così. Cambiando il modo di vedere le cose.

Prova a farlo, in qualche modo, lo stesso Audiard, che per la prima volta abbandona le periferie urbane e si tuffa nell'ignoto di una natura fredda e inospitale, alternandola a piccoli e polverosi paesini (come il neonato Mayfield, nella fase forse più esilarante del film) fino ad arrivare al caos di San Francisco. Mutano le ambientazioni e il periodo storico, restano le stimmate di un cinema che non dimentica mai l'oggetto primario della sua attenzione: l'uomo, la sua natura, la profondità delle relazioni, la sua violenza e le aberrazioni, la ricerca di felicità e la possibilità di un cambiamento.