"Se Dio è dieci, tu sei nove, il koala (che controlla il tempo) è otto, la gente comune sette". Estratto originale di dialogo di The Nines; e più precisamente dato esplicativo di un contorto meccanismo di messa in scena. Tutto, nell'opera prima di John August (sceneggiatore degli ultimi Tim Burton come Big Fish e La fabbrica di cioccolato) rispecchia una deviazione e riformulazione continua di senso che potrebbe ricordare il più distaccato dei deliri lynchiani. Tre episodi, o frammenti consequenziali, dove il personaggio maschile (prima Gary, poi Gavin, poi Gabriel) vive, si dissocia, si riassocia di un ruolo di attore, poi di sceneggiatore, infine di padre di famiglia. Lo schema di fondo è sia quello di riprodurre magmaticamente le variabili attoriali (i quattro attori principali riappaiono, sempre e solo loro, mutando personaggi, costumi e acconciature), che creare un prisma di un discorso filosofico sulla presenza sotto i riflettori comunicativi, tra cinema e televisione, causa della confusione e del caos mentale nel protagonista. Nel percorso accidentato della diegesi del racconto, trova spazio la quotidiana esistenza di un attore recluso dalla sua produttrice in una splendida villa delle colline di Los Angeles, il frenetico ritmo giornaliero di uno sceneggiatore di serial tv che poi sembra una ripresa live senza filtri della sua quotidianità e il papà buono che appiedato con la famigliola in mezzo ad un bosco ritrova per tutti la strada di casa. Lo smarrimento esistenziale del singolo è rielaborato lavorando più sulla parola che sulla scrittura, più sulla performance di trasformazione dell'attore che sullo spessore dell'interpretazione. Tutto sembra esistere in funzione di un filo (verde, come si vede nei titoli di testa) che si sfibra e che va continuamente riannodato da mani inesperte. Sembra un delirio programmatico e freddo, ma in fondo è solo un tentativo di parlare e proporre un linguaggio intellettualmente elitario ma intrigante. Ed in fondo il catatonico faccione di Reynolds è l'elemento fondamentale per la mutazione da crisalide in farfalla di un personaggio principale inquieto e ipotesi (banale?) di metafora della personale inquietudine dell'autore.