Marinaio, alcolizzato e abile inventore di distillati, Freddie Quell (Joaquin Phoenix) torna in patria alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Prova a reintegrarsi, prima come fotografo in un centro commerciale, poi come agricoltore: fuggirà via, da entrambe le situazioni. E si imbarca di nuovo, stavolta - inconsapevolmente - per combattere un nemico più grande di lui, i demoni di un passato che lo hanno reso il disadattato di oggi, solo, senza casa, senza famiglia, tenuto "in vita" dalla convinzione che lì, in Massachusetts, troverà la sedicenne Doris ad aspettarlo.

Sarà rimasto deluso chi, da The Master, attendeva l'attacco frontale a Scientology: il film di Paul Thomas Anderson - per la prima volta a Venezia, in Concorso - è molto di più, pur affrontando la questione dell'affermarsi di una setta ("The Cause"), la "metodologia" del proselitismo e senza evitare il rimando diretto a Hubbard (il fondatore di Scientology), palese con la presentazione di Lancaster Dodd (Philip Seymour Hoffman): "Sono uno scrittore, dottore, fisico nucleare, filosofo teoretico, ma soprattutto un uomo". E' lui, su quel barcone, ad "accogliere" il vagabondo ubriacone, ad intuire la possibilità di un "cambiamento", a convincersi di averlo già incontrato "in un'altra vita", a volerne scrutare il subconscio per intraprendere il cammino che da "animale" lo riporti ad essere uomo: Lancaster Dodd è la facciata di un'America (i cui fili, si capirà poi, sono saldamente tenuti dalla moglie "dietro le quinte", Amy Adams) così fortemente radicata sulla centralità dell'uomo, del controllo, del "dominio", da dimenticare quanto sia profondo il solco, il vuoto generato dall'assenza di un'affettività, quella "materna", che l'America stessa non ha evidentemente mai avuto e che Freddie riabbraccia, idealmente, solo sotto forma di enorme donna di sabbia.

E' forse il film più radicale, più intimo di Paul Thomas Anderson, che prosegue sulla strada della magniloquenza visiva (addirittura in 70mm, come I giorni del cielo e, in parte, The New World di Terrence Malick) e, dopo Il petroliere (anche qui la partitura musicale è affidata a Jonny Greenwood), conferma una volta di più di allontanarsi dagli affreschi corali che in passato lo avvicinarono al cinema di Altman. Disorienta per la complessità di un racconto spoglio di qualsiasi "tesi", privo di "scene madri" (non a caso...) e figlio di un controllo talmente maniacale - sì, proprio come quello che accompagnava il mito di Stanley Kubrick - da impedire ulteriori, superflui eccessi alla già esplosiva recitazione di Joaquin Phoenix: "imprevedibile" e spaventoso (quando lo portano in cella, la distruzione del sanitario di porcellana non era prevista dalla sceneggiatura...), rovescio della medaglia dell'apparente, mediatica bonarietà del "maestro-padrone" interpretato da Seymour Hoffman, anche lui enorme. The Master, se si vuole, è allora l'affresco di questa insolita storia d'amore tra due personaggi antitetici, convinti - ognuno a suo modo - di poter cambiare l'altro. Inutilmente.