Ci sono film desolanti perchè rispecchiano una realtà desolata o lo sono a prescindere, trascinando nella loro desolazione ciò che rappresentano? Emblematico (fuori concorso) The Canyons: sopa opera in rigor mortis, mortifera tranche de vie hollywoodiana, con l'aggettivo ("mortifera") riferibile tanto alla forma (appiattente, obitoriale), quanto al suo contenuto (piatto, esangue). Il dilemma sulla sua attribuzione è serio, riguarda l'etica della rappresentazione, la sua natura testimoniale o, all'inverso, ingannevole.
Problema che a un maestro di comprovata sensibilità morale come Paul Schrader (American Gigolo, Autofocus) certo non poteva sfuggire. E in effetti, se l'operazione appare cinica, sostanzialmente inutile e (perciò) sbagliata, la responsabilità non è tanto del regista - lui sì padrone assoluto della messa in scena, da cui riesce a ricavare la massima resa dal minimo sforzo (economico: 250.000 dollari il budget) - ma a nostro giudizio dello sceneggiatore (Bret Easton Ellis) e del produttore nonché interprete principale (Lindsay Lohan).
La deprimente fauna hollywoodiana di Bret Eston Ellis non è una novità per i lettori dei suoi romanzi, popolati da mostruosi animali del jazz set, correntisti da sei zeri a salire, e uno solo (zero) custodito nel fondo della coscienza. E quando non sono ricchi, annoiati e viziati, ucciderebbero la propria madre pur di diventarlo, immuni a leggi kantiane e grilli parlanti, beatamente ignari di ogni segnaletica morale, compromessi per fede. Un mondo marcio dove chi vive e chi muore è parimenti colpevole, dannato, perduto. Questo Bret Easton Ellis. Se il suo universo abietto marcia dietro a un testimonial vivente come Lindsay Lohan, nota più alle cronache giudiziare e alcolemiche che a quelle cinematografiche, la guerra è perduta in partenza: non si salva nessuno e amen.
Così viziato figlio di papà (il pornoattore James Deen), con ingente fondo fiduciario e indole psicotica, spinge a sequela due parvenu dello showbiz (Lindsay Lohan e Nolan Funk), lesti dal canto loro a conformarsi a questo modello di spregiudicatezza morale. Mortificazione sessuale, ossessione per il controllo, paranoia e volontà di potenza sono solo il corollario di vite appese al cappio della vanità e della noia. E se poi ci scappa anche il morto, chi se ne importa? L'esangue triangolo di passioni (poche) e ricatti s'iscrive nel cerchio dell'abiezione morale, dove tutto s'innalza a cade ripetutamente, riformandosi ogni volta uguale a se stesso. Resta fuori, ineffabile, l'attrattiva per un mondo che pure da decenni il cinema dipinge come il più immondo dei mondi possibili. Non sarà invece che pure lì qualcosa di buono ce l'hanno? Non convince il tono apodittico di The Canyons. E' banale. Possibile che a Hollywood sia tutto un precipitato d'anime, una nera, melmosa palude di tutte le nostre aberrazioni morali? O non è forse, al pari dell'idolaltria del "sogno" venduta dagli studios, l'effetto anche questo di una rappresentazione impietosa e insofferente, un gesto di frustrata rivolta di un trittico di autori delusi (Schrader), sfregiati (Lohan), annoiati (Ellis)?
E' finto, stupido e superficiale il milieu di The Canyons, su questo non ci piove. Ma nulla assicura che lo sia anche il mondo là fuori, il mondo che il film pretende di raccontare.
L'impressione è che gli esseri umani siano più complessi dei loro omologhi di finzione. E che una volta tanto sia l'arte, l'arte che esiste perché "la vita non basta" (Pessoa), a non bastare alla vita.