Lo rimpiangeremo Tsai Ming-liang. Torneremo a vedere i suoi film per riprenderci l'innocenza, purificarci. Necessarie boccate d'ossigeno contro i miasmi della produzione mainstream, delle commedie caramellose, dei drammi galattici, dei filmoni fasulli, dei barili di inutile fuffa post-moderna. Tutto quello che l'opera del cineasta taiwanese - una bomba H lanciata contro l'iconolonialismo accattivante - non è mai stata. Filmare come rischio, vedere come tormento. Non nascondiamolo: Tsai Ming-liang costa fatica. Non è cinema per tutti.
Stray Dogs non è nemmeno un film. E' arte. E' testamento. E' urlo silenzioso. E' un proibitivo, doloroso, addio. E' perfetto per congedarsi. Anche questo lo si capisce solo dopo, in ritardo. Inizia così: piano fisso frontale, una donna che continua a pettinarsi i capelli, seduta su un pezzo di letto dove due bambini dormono, uno russa. Un minuto, due, tre, sembra interminabile. Che significa? Cosa deve accadere? Quella donna si sta preparando a qualcosa, sta aspettando qualcuno? In barba ad ogni aspettativa narrativa, anzi all'idea stessa di narrazione, Tsai Ming-liang ci chiede solo di attendere con lei. "Intuiremo" alla fine (sapere no, nulla è dato nel suo cinema) che probabilmente stava aspettando il marito, che il marito arriverà in ritardo (se arriverà), che lui ha il vizio del bere.
Stray Dogs inverte i tempi: ciò che viene dopo, in una specie di trasfigurazione onirica del passato, spiega quanto accade prima. E prima non accade molto, anzi non accade nulla: il bighellonare dei due bambini e del loro padre nel deserto di spazi anonimi (supermercato), vuoti (la spiaggia, le fratte) dimessi (la topaia dove passano la notte). La fisiologica coazione a ripetere del mangiare, dormire, mangiare, ancora dormire. Pisciare. Lo stato randagio della vita. E questo trascinarsi tra due punti uguali che cos'è, se non l'impasse? Il padre tiene fisso un cartello per la vendita d'immobili. Poi non farà nemmeno questo. C'è un'altra donna, la commessa di un ipermercato, che si affeziona alla bambina, le lava i capelli, le regala roba da mangiare. Feticcio di una madre, di una moglie. Regala cibi scaduti perché il tempo è andato, le madri e il mondo sono irrimediabilmente in ritardo.
Tsai Ming-liang dà corpo ai fantasmi di una separazione, la disintegrazione di una famiglia, le sue conseguenze. Evoca, con una purezza e una visionarietà strazianti, secche di relazioni, scarti d'umanità, rovine edili, metropolitane. Assimila Bresson e Ozu, Antonioni e Fassbinder per cogliere in chiave anti-estetica, a-storica e pre-verbale, lo sfaldarsi del mondo. Il nuovo diluvio universale dal quale nessuna Arca stavolta potrà metterci al riparo.
Tra il vuoto pneumatico e l'avido consumismo (che logora chi consuma: vedi la scena del cavolo), Tsai Ming-liang decide di consegnarsi definitivamente al primo. Non è una soluzione, non c'é via d'uscita: solo un limite, un fasullo orizzonte di cartapesta, da contemplare. Un altro muro del pianto, che oltre non c'è nulla, più nulla, come sanno bene i due amanti che si congedano senza parole. Il loro vaggio termina qui.
Il soggetto implicito di Stray Dogs è il tempo. La sua irreparabilità. Tsai Ming-liang ce lo offre come esperienza estenuante, durata protratta di una stasi. Sembra lunghissimo ma è tempo congelato. Tempo che non passa, perché è ormai passato. La metafisica dell'immagine si compie: lo spazio svuotato e il tempo disincarnato diventano lo spettro di una fine non in atto, ma avvenuta.
Il mondo - dunque la sua rappresentabilità - è postumo. Il cinema non finisce qui, era già finito.Dopo può esserci solo qualcosa di diverso. Tsai Ming-liang ha già deciso che non ne prenderà parte.