Saeed e Milad sono amici, ma vivono in due diverse città nella Siria dilaniata dalla guerra civile. Mentre il primo è un appassionato di cinema che cerca di insegnare ai giovani combattenti di Ghouta i segreti della settima arte, il secondo studia arte a Damasco, lontano dal fronte della battaglia e saldamente sotto la stretta del regime. Un giorno, sconvolto dalle notizie che trapelano in merito alle atrocità perpetrate dall’esercito regolare, Milad decide di raggiungere Saeed nella città assediata e qui i due amici tentano di mettere su uno studio di registrazione, senza arretrare di un passo nella loro opera di documentazione della vita quotidiana al tempo della guerra.

Il film di Saeed Al Batal e Ghiath Ayoub, entrambi giovani cineasti siriani, scava a fondo nella catastrofe che da anni lacera il loro paese e per farlo adopera l’approccio - era pressoché inevitabile - del cinema documentario, con la sua urgenza di aggredire la realtà e di coglierla nel suo disfacimento materiale, hic et nunc, di edifici, di corpi e, inevitabilmente, anche di senso. A guidare l’intero lavoro è l’illusione che l’occhio della cinepresa sopravviva all’uomo ed esista forse persino a prescindere dall’uomo stesso. Ma fino a che punto, è lecito chiedersi, questa illusione è realmente in grado di trasmettere il lezzo dei cadaveri giustiziati e la spirale d’orrore innescata dalle bombe sganciate dal cielo? Lungo e spossante, girato tra il 2011 e il 2015, Still recording ospita nondimeno impressionanti sequenze di vagabondaggio tra le macerie a seguito delle milizie e mostra, come se avessimo ancora bisogno di conferme, fino a che punto, sovente, le immagini rendano superfluo ogni tipo di commento.

In Concorso alla Settimana Internazionale della Critica, Venezia 75.