La prima esperienza con il cinema la bruciò (Santa Giovanna di Preminger, 1957), la passione per la giustizia sociale finì per ucciderla.

In mezzo, grazie a Fino all’ultimo respiro (1960), divenne il volto più riconoscibile della Nouvelle Vague, con Godard che seppe catturare e restituire quella spontaneità naïve, quasi etichettandola per sempre.

Quasi 20 anni dopo, il 30 agosto 1979, la quarantenne Jean Seberg venne trovata morta – completamente nuda – dentro una Renault. Non dava sue notizie da 10 giorni, lasciava un biglietto (“Forgive me. I can no longer live with my nerves”), un figlio nato dal matrimonio (il secondo di tre) con lo scrittore Romain Dury e lo strazio ormai quasi decennale della perdita della secondogenita Nina, morta solamente due giorni dopo essere nata, nel 1970. Da quel giorno, ogni anno lo stesso giorno, Jean Seberg tentò il suicidio. Trovando la morte al decimo tentativo.

Seberg, biopic diretto da Benedict Andrews e interpretato da Kristen Stewart (Fuori Concorso a Venezia 76 proprio nel giorno del 40° anniversario dalla morte di Jean Seberg), riporta a galla una fase dell’esistenza dell’attrice, quella meno nota, quella che finì per distruggerla, portandola anni più tardi al suicidio: sul finire degli anni ’60, tornata a Los Angeles per prendere parte a nuovi film, Jean Seberg finì nel mirino del programma di sorveglianza illegale dell’FBI, COINTELPRO. Il coinvolgimento politico e sentimentale dell’attrice con l’attivista per i diritti civili Hakim Jamal (Anthony Mackie) la rese un obiettivo dei tentativi spietati del Bureau di arrestare, screditare e denunciare il movimento del Black Power.

Operazione al tempo stesso affascinante e ambigua, Seberg è mosso da intenti cinematograficamente nobili (il tentativo di osservazione del soggetto/oggetto attraverso i meccanismi utilizzati dalla FBI per spiarla, cimici, macchine fotografiche, registrazioni audio) ma perde spesso il controllo a favore di un manierismo esibito e superfluo, fidandosi troppo di frasi a effetto o slogan di facile acchiappo (“La rivoluzione ha bisogno delle stelle del cinema”, tanto per citarne uno).

Quello che racconta è vero, ovviamente romanzandone molti aspetti, omettendone (a volte per fortuna) altri, saltando dei passaggi, inserendone altri ancora: come, immaginiamo, la vicenda intrecciata e parallela dell’agente FBI Jack Solomon (Jack O’Connell), giovane e ambizioso, incaricato di sorvegliare l’attrice.

Ne deriva così un doppio binario narrativo: lui la osserva, diventando il suo “primo” spettatore in un certo senso, chiamato però a prendere una decisione riguardo alla verità relativa a quella persona. E questo, giocoforza, avrà ripercussioni anche su di lui.

Andrews porta sullo schermo lo script firmato da Joe Shrapnel e Anna Waterhouse, affidandosi macchina e corpo alla performance di Kristen Stewart. Anche per questo, forse, tutto quello che avviene alle sue spalle sembra interessargli (e quindi alla fine interessarci) meno.

Il discorso, in conclusione, è abbastanza semplice: una vicenda tale e un personaggio simile tengono un film in piedi a prescindere, a mancare è quella profondità di sguardo capace di trasformare entrambi gli elementi (la vicenda, il personaggio) in linguaggio, in immagine, elevandone la portata per inscriverli nel mito. Fino all’ultimo respiro.