“Portame da beve Ercolì, che me sento male”.

Luciano è l'ubriacone del villaggio, a detta di tutti, ma in realtà è l'unico deciso ad opporsi al potere del padrone.

E proprio un suo gesto scellerato, incendiario, lo costringerà ad un esilio avventuroso, dal borgo di Vejano nella Tuscia alla lontanissima Terra del Fuoco, all'estremità del Sudamerica.

Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis esordiscono al lungometraggio di finzione con Re Granchio - ospitato in premiere mondiale alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes - con un anomalo e simbolico western ambientato nel tardo Ottocento, racconto che prende le mosse da leggende tramandate dalla tradizione orale, leggenda che appunto, anche nel film, viene introdotta da una tavolata di anziani commensali dei giorni nostri.

Re Granchio
Re Granchio
Re Granchio

Al centro della vicenda, come detto, c'è Luciano, esaltato dall'interpretazione di un sorprendente Gabriele Silli, artista che vive a Roma, non-attore amico dei registi, capace di restituire tanto con la mimica quanto con la fisicità la necessaria poetica “cittiana” di una figura sospesa nel tempo, e per questo mitologica.

L’amata di Luciano è Emma, ruolo chiave per lo sviluppo della narrazione, interpretata da Maria Alexandra Lungu, già vista e apprezzata in Le meraviglie di Alice Rohrwacher.

Sarà proprio per proteggere la ragazza dal principe che Luciano compirà un atto estremo, in seguito al quale verrà costretto ad allontanarsi. In un altro mondo.

La metamorfosi del protagonista coincide con la mutazione del film, intramezzata da un breve ritorno all’oggi necessario per ribadire che da quel momento in poi, in quelle terre “in culo al mondo”, la storia di Luciano è solamente figlia di una ricostruzione ipotetica, sommaria, figlia di molteplici racconti destinati a trasformarsi, arricchirsi, o impoverirsi, di volta in volta.

“Il granchio è la bussola, io sono la mappa”.

La fitta e inestricabile vegetazione della Tuscia lascia spazio alla vastità di lande infinite e solitarie, lo spagnolo diventa la lingua dominante, Luciano/Padre Antonio (?) e un manipolo di marinai senza scrupoli girovagano alla ricerca di un mitico tesoro.

Per certi versi sembra di ritrovarsi catapultati nel bellissimo Jauja di Lisandro Alonso, altro film sospeso nel tempo e in analoghi luoghi, lo sguardo dei due registi – coadiuvati dal magnifico lavoro di Simone D’Arcangelo alla fotografia – non scende a compromessi, mantenendo la fierezza di un’autorialità di genere esaltata sia dalla messa in scena (favorita dalla totalità di sequenze on location) sia dall'accompagnamento narrativo dato da musiche (Vittorio Giampietro il compositore) e canzoni “popolari” frutto, anche queste, di una rielaborazione che ha preso le mosse dal tramandato, creando così una sorta di evoluzione nella tradizione.

Matteo Zoppis e Alessio Rigo de Righi sul set di Re Granchio
Matteo Zoppis e Alessio Rigo de Righi sul set di Re Granchio
Matteo Zoppis e Alessio Rigo de Righi sul set di Re Granchio
Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis sul set di Re Granchio

Si potrebbe quasi azzardare ad una felice sintesi tra Herzog e Jodorowsky, di fronte a Re Granchio, cinema di ricerca, di migrazione, di conquista, avventura e redenzione, cinema capace di infiltrarsi nella magia delle leggende, della tradizione orale, restituendone la libertà – soprattutto visiva – che difficilmente riesce a trovare sfogo sul grande schermo. Applausi.