Kiev, autunno 2013. La quindicenne Olga (Anastasiia Budiasgkina), ginnasta prodigio, si allena giorno e notte per gli europei di categoria, ovvero il trampolino verso le Olimpiadi. Intanto piazza dell’Indipendenza è una polveriera. Manifestazioni e proteste si susseguono. Gli ucraini chiedono la testa del presidente filorusso Yanukovych (poi incriminato per alto tradimento) e di riallacciare i rapporti con l’Europa.

A documentare l’Euromaidan c’è la madre di Olga, reporter battagliera invisa al potere, che trascura, così, la figlia. La ragazza non più al sicuro in Ucraina, è costretta alla fuga nella placida Svizzera francese. Paese nuovo, stessa storia: anche con la tutina rossocrociata, la ragazza “tormenta” ad ogni ora barre e parallele in vista degli europei. Ma la lingua è un ostacolo, le nuove compagne sono algide, la famiglia adottiva non protegge e le notizie dall’Ucraina, sempre meno confortanti, la sospingono davanti a un bivio: la ginnastica o la famiglia. La passione o l’Ucraina.

Premiato per la sceneggiatura alla Semaine de la Critique di Cannes 2021, poi proiettato (tra gli applausi) nella sezione Alice nella città, Festa del Cinema di Roma 2021, Elie Grappe debutta con un coming of age angoscioso e accorato sullo sfondo di una Nazione lacerata da rivolte epocali. Sul fondo realistico – nel doppio binario narrativo e strutturale – cuce biopic e documento storico, con una sfrontatezza creativa e un ardore civile che fanno ben sperare per il futuro. Applausi per la capacità di rigettare l'individuo dentro la Storia, legando la questione privata a quella pubblica, il destino di Olga a quello di un popolo (qualità rara nel nostro cinema, così ombelicale e medioborghese, ma questa, forse, è un’altra storia).

Figlia di un Ucraina smaniosa di libertà, Olga è la donna del Duemila. Senza famiglia, senza legami, né patria. Adulta prima del tempo, in euritmia con la crescita della coscienza civile del suo paese. Impara presto a fidarsi di sé stessa, a sopportare le angherie delle compagne, ad allenarsi – novella Rocky Balboa dell’Est - nella neve, ad accettare di non poter tornare in patria né rappresentare in gara la sua Nazione.

Grappe (anche sceneggiatore con Raphaëlle Desplechin) trova nell’ibridazione felice di generi, suggestioni e forme narrative (il coming of age con il dramma sociale, la cronaca con quello familiare) la chiave di volta per erigere un film filoeuropeo dalla parte di un Ucraina rabbiosa e rivoluzionaria, che diventa testamentario in questi tempi di guerra. Volteggia sul doppio filo il regista, sfumando (e insieme esibendo) i confini tra realismo e cinema – la protagonista è nella vita anche ginnasta, come le coprotagoniste -, tra documentario e drammaturgia, sciogliendo fluidamente la fiction nei filmati d’archivio, e viceversa.

Ne esce fuori un film pregevole, più forte della sua concatenazione narrativa che qui e là si rivela farraginosa. Calamitante e incupito, ostinato e battagliero, Olga non cede mai alla disperazione. Anzi, in extremis trova pure la forza di sterzare verso un luminoso, aurorale speranza senso di per il futuro. 

Grappe – svizzero, non europeo che racconta la storia di un’ucraina costretta a diventare svizzera, ma nata in un paese che chiede di essere più europeo – ci grida a squarciagola che l'apolitica, perfino in una società così egoriferita come la nostra, non esiste. Ogni gesto, ogni azione oggi è (ancora e per fortuna) politica. 

Anche piroettare su una sbarra a quindici anni. Da una parte all’altra dell’Europa.