Dance First, (Think Later), un’estrapolazione spuria dal Godot che diviene il titolo del dramma biografico di James Marsh sulla vita di Samuel Beckett, il celebre drammaturgo irlandese premio Nobel.

Già film di chiusura del 71° Festival di San Sebastian, trova il cartellone del 41° Torino Film Festival, con il superbo Gabriel Byrne nel ruolo dello scrittore e Sandrine Bonnaire in quello della moglie Suzanne Deschevaux-Dumesnil.

Scritto da Neil Forsyth, nel cast anche l’ottimo Aidan Gillen per James Joyce, Fionn O’Shea per il giovane Beckett, Dance First segue Beckett nei legami familiari, la lotta nella Resistenza francese, l’amicizia con Joyce (e la relazione coatta con la di lui figlia “pazza”), l’ascesa con Aspettando Godot, Finale di partita e Giorni felici e la consacrazione del Premio Nobel per la Letteratura nel 1969.

Del biopic a geometrie variabili Marsh è un campione, ha vinto l’Oscar per il documentario del 2009 Man on Wire, dedicato all’impresa funambolica tra le Torri di Philippe Petit, e ha trovato successo planetario con La teoria del tutto del 2014, dedicato al fisico Stephen Hawking, valso la statuetta da protagonista a Eddie Redmayne.

Stavolta pare più incline alla soddisfazione formale, all’ebanisteria letterario-sentimentale, con bon mots e arguzie, wit e sprezzatura generosamente elargite su partitura lirica. Dall’infanzia alla vecchiaia, il monologo di Beckett con Beckett, Godot in fuoricampo interno, e Marsh a tessere una rete preziosa e al contempo irresoluta, in cui il “Prima balla, pensa dopo” battezza l’attitudine estetizzante.

Girato in gran parte in bianco e nero, parte da Stoccolma 1969, allorché – licenza poetica, sarebbe stata in realtà la moglie a profferirlo - Beckett accoglie con "Che catastrofe" il Nobel.

Si va per vignette giustapposte, con il senso di colpa per basso continuo, il mantra del padre morente “Combatti. Combatti” per sprone, e Parigi, negli Anni Venti, per approdo d’elezione: l’eroe Joyce e l’apprendista Beckett, la figlia Lucia (Gráinne Good, bene) per spada di Damocle, e Suzanne Dechevaux-Dumesnil (interpretata in gioventù da Léonie Lojkine) per salvezza – la convalescenza dall’accoltellamento pe rmano di un magnaccia, e la vita tutta.

Un mosaico, una collettanea fascinosa, ma poco mordace, che annovera pure la relazione professionale e amorosa con la direttrice, traduttrice e critica della BBC Barbara Bray (Maxine Peake), da cui le tensioni con Suzanne. Nel finale arrivano i colori sbiaditi, il mood terminale, e in noi spettatori la convinzione che il meglio stia con Byrne al centro, e la mestizia intorno: “Non c'è niente di interessante nella gioia".

Forsyth affina i dialoghi, mette in luce il Beckett pressoché ignoto, dalla Resistenza all’amicizia con il traduttore Péron, e parcellizza le opere, con un qualche misconosciuto coraggio.

Location a Budapest, il direttore della fotografia Antonio Paladino opta per luci soffuse e chiaroscuro timido, indulgendo in un romanticismo più morbido che condivisibile: il montaggio di David Charap asseconda la brachicardia e il lirismo di Marsh, ma i guanti di velluto non conciliano la scrittura. Già, Beckett, chi era costui, e chi è quest’altro che danza d’immagine in immagine senza colpo ferire? Un lento estetizzante.