È l’unico italiano in concorso al 41° Torino Film Festival, e non è affatto male: diciamolo subito, Venezia e Roma dormivano, avevano il cellulare spento, che altro?

Non riattaccare, opera seconda del fiorentino classe 1984 Manfredi Lucibello (Tutte le mie notti), è il Locke – ve lo ricordate? – nazionale, con Barbara Ronchi nell’abitacolo di un’auto senza soluzione di continuità e l’altrui salvezza per missione indifferibile.

Dieci anni fa, anche lì opera seconda, l’inglese Steve Knight mise al volante Tom Hardy e su ruota un piccolo capolavoro di scrittura, emozione e tensione, qui Lucibello succhia la ruota, regalando alla Ronchi un ruolo totale, che la conferma oggi al vertice delle interpreti nostrane.

Dopo il David ultimo scorso per Settembre di Giulia Steigerwalt, peraltro, conferma un invidiabile talento per personaggi che per tempo e spazio su schermo sono, nel nostro cinema sessista, sovente esclusivo appannaggio dei colleghi. Brava, per scelta e resa.

Insomma, la sinossi è sintetica e non mente: “Una notte. Un viaggio. Un telefono. Una vita da salvare”, sicché Ronchi, nei panni di Irene, viene nottetempo contatta in pieno lockdown dall’ex Pietro (Claudio Santamaria), che non sta bene, proprio no: il rischio è suicidario, se ne sta sul tetto pericolante di una casa a Santa Marinella, e la donna pur sentimentalmente recalcitrante non può che corrergli in aiuto. Roma è deserta, di più spettrale, la speranza di raggiungerlo per tempo, la necessità, nomen omen, di Non riattaccare.

Lucibello scrive con Jacopo Del Giudice, e al netto – non vi roviniamo la sorpresa, e non indulgiamo nella tassonomia – di grossolane incongruenze, preclare inverosimiglianze, palesi amnesie e sventate iperboli riesce in un compito improbo: tenerci incollati a quel volante, aderenti a quel soccorso, appesi a quella sorte.

Gran parte, e siamo in difetto, del merito pertiene a Ronchi, che ha sguardo e (far) sentire come pochissime altre da Trieste in giù: ci associa, noi spettatori, alla missione di Irene, con un effetto-verità più forte di qualsiasi irrealtà.

Il legame è sentimentale, facciamo nostra la sua storia terminale ma non terminata con Pietro, la seguiamo con riserva, carburante, e patema, batteria poca e caricabatterie assente, la beneficiamo di sospensione dell’incredulità e astensione dal giudizio, apprezzandola per quel che è: eroina dell’auto, pardon, della porta accanto.

Le musiche di Motta sono pregevoli, parimenti la fotografia di Emilio M. Costa con licenza di belle immagini, il montaggio anti-claustrofobico di Diego Berré, producono i Manetti Bros. e Pier Giorgio Bellocchio (e il defunto Carlo Macchitella) con Mompracem, e c’è da plaudire: operazione a basso costo e alta soddisfazione, Non riattaccare conferma la qualità di Lucibello e la specchiata preminenza di Ronchi. Rispondete in sala.