Diciamo la verità: quando un personaggio si stacca la testa con le mani, vorresti fare lo stesso con Carlos Reygadas. Eppure l'alchimia di naturalismo e allucinazione servita dal regista messicano non ti lascia, ti scava dentro con la silhouette fluorescente del diavolo e le fascinose deformazioni del grandangolo. Dopo Battaglia nel cielo, Japón, stellet licht, Post Tenebras Lux evoca Giobbe e tanta pazienza ci vuole, ma è Reygadas all'ennesima potenza: prendere o lasciare.

Da afferrare e mettere in bacheca è sicuramente l'ouverture: infantile e temporalesca, con la sua vera figlia abbandonata tra cani e lampi nel fango (cuore di tenebra, papà Carlos?), è stata la meglio cosa di Cannes 2012, dove il nostro ha portato a casa il premio per la miglior regia. Difficile eccepire, perché il problema – sì, c'è – non è il racconto, perfino virtuosistico e sempre mozzafiato, bensì la storia: Reygadas forse se ne dimentica, sicuramente non se ne cura, nonostante – o proprio perché - giri a casa propria, letteralmente e autobiograficamente/esistenzialmente. Difficile raccogliere i cocci “narrativi”, diciamo che una coppia molto benestante si trasferisce in un buen retiro immerso in splendida natura, dove si affacciano incomprensioni, scontri di classe (indigeni ed europei, una costante di Reygadas), inadattabilità, sangue e, pure, un sex club memore di altre battaglie a naso insù.C'è anche una partita di rugby, presumibilmente giocata in Inghilterra, ma mancano Spagna e Belgio tra le altre location pre-annunciate dal regista: questioni di budget ad acuire il dadaismo del plot? Chissà, ma Post Tenebras Lux non si dimentica: puoi schifarlo, respingerlo, rinnegarlo, ma rimane. Forse lo zampino è quello bressoniano: il diavolo probabilmente. Già, Reygadas rabbrividirebbe, ma tocca rispolverare un adagio: anche lui fa le pentole, ma non i coperchi. E qualcosa si perde: non il talento dietro la macchina da presa, ma la coerenza davanti. Dopo il buio in sala, non ogni cosa è illuminata.