Un passo avanti, timido. Rispetto a un impasse immortalato con sgradevole coscienza nell'ultimo suo film a memoria nostra, Arirang. E' il Kim Ki-duk di Pieta, il titolo più applaudito dalla stampa tra quelli finora passati in concorso. Non si sa se per convinzione o incoraggiamento. Si può dire che nel film ci sia il buono, il brutto e il cattivo che ha caratterizzato la produzione più recente di questo cineasta immenso e fragile.
Il buono: sprazzi del grande regista che è stato - quello che va da L'isola a Primavera, estate, autunno, inverno - si scorgono nella tessitura formale che fotografia, angoli di ripresa e sound design conferiscono all'opera. Kim Ki-duk sa ancora dove piazzare la cinepresa, quando isolare i dettagli, come creare sinestesie e aritmie logico-visive (di cui l'ironia, volontariamente involontaria, è l'esito più vistoso) che producono costantemente un diaframma tra l'epidermide del racconto e il suo cuore più nascosto.
Come uno specchio a due facce il cinema di Kim Ki-Duk è fatto di un mondo riflesso e di un altro da scoprire, dall'altra parte del vetro. Non è un mondo narrativo ma pulsionale. Non sono i sottotesti covati dentro una storia portante - la ferocia sanguinaria delle banche sotto la maschera inespressiva di un manovale degli usurai, forse? - ma il riverbero di una coscienza addormentata nel grembo della terra: la violenza e l'amore, il dolore e la gioia colti a uno stadio pre-linguistico, innocente e barbaro.
Così, se il racconto di Pieta è il brutto della situazione, con la sua meccanicità insopportabile e uno schematismo imbarazzante - in soldoni: uno spietato esattore si converte quando incontra "la madre" che lo aveva abbandonato alla nascita -, il cattivo è frutto di quella radicalità, qua e là ritrovata, con cui Kim Ki-Duk sa evocare paure e desideri profondi, indicibili. Non è tanto la rottura del tabù, la messa in scena di un possibile incesto, la "maternità" di una masturbazione, il maltrattamento degli animali (ancor più degli uomini: questa è la sensibilità corrente, d'altra parte), a scavare sotto la superficie del testo e la pelle dello spettatore, ma l'indecidibilità morale con cui tutte queste cose si proiettano sullo schermo. Come fantasmi di ritorno.
Ancora: teatro della crudeltà, per dirla con Derrida, dove lo spettacolo convive con le macerie, senza poterna fare a meno. Perché lo spettacolo "abbellisce i fallimenti, le sconfitte, le perdite che il passato consegna alla vita e sottrae il peso di questa angoscia allo sguardo pigro dello spettatore. Le macerie, al contrario, sono il segno indistruttibile di ciò che il teatro assume dalla vita orrida e vera". Nel cinema di Kim, dentro di lui, tutto è in rivolta. Lo sapevamo. Uomo contro uomo, animali, cose. E che possa arrivare una madre ad amarci - a cambiarci - è naturalmente pia illusione. Forse pure crudele inganno. Spettacolo. Ma è l'unica cosa, sembra dirci Kim nel bel finale, che in fondo ci resta. Il grande imbroglio deputato a salvarci.