Solamente un paio di settimane e Sam Bell (Sam Rockwell) potrà finalmente riabbracciare moglie (Dominique McElligott) e figlia. Da tre anni sulla Luna, unico essere umano nella base Sarang per conto della Lunar Industries, Sam Bell ha il compito di controllare che le varie mietitrici sparse sul satellite estraggano correttamente l'Elio-3, principale fonte d'energia per la Terra. Un tavolo da ping pong al muro, un plastico su cui lavora "da 938 ore", la sveglia tutti i giorni alle sei e la voce di Gerty (nella versione originale di Kevin Spacey), sorta di "fratello minore" dell'HAL 9000 di kubrickiana memoria, quale unico contatto "semi-umano" da tre anni a questa parte. L'esilio sta per terminare, ma un incidente quasi fatale dà il via ad un "nuovo inizio", un incubo doppiamente peggiore di quello vissuto fino a quel momento. E ritrovarsi con un "altro" Sam Bell tra i piedi sarà cosa difficile da accettare. Come il dover prendere coscienza del grande inganno che, fino ad allora, ne ha condizionato l'esistenza.
Quando il cinema indipendente incontra la migliore fantascienza possibile: è il caso di Moon, esordio al lungometraggio del britannico Duncan Jones (figlio di David Bowie), che porta sullo schermo - con budget irrisorio (5 milioni di dollari) - un suo soggetto originale, adattato da Nathan Parker. Claustrofobico ed ipnotico, modulato sulle straordinarie sonorità di Clint Mansell (probabilmente, oggigiorno, il più grande compositore di musiche per film), Moon non nasconde affatto le suggestioni e le influenze - letterarie e cinematografiche (da 2001: Odissea nello spazio a Silent Running) - che ne caratterizzano struttura e atmosfere, servendosene non solo a scopi meramente citazionistici ma, in un certo senso, riproponendo l'immagine di un futuro allora vagheggiato, ipotizzato, anticipato e, perché no, temuto, in un presente (?) dove anche l'interprete principale - l'uomo - finisce per abbandonare compiti, mansioni, solitudine ed emozioni ad infinite copie, immagini di se stesso. Ricordi impiantati, illusioni, desideri, convizioni e consegne per esistenze a termine, alle quali uno straordinario Sam Rockwell - di fatto protagonista totale e solitario del film - riesce a trasmettere le più sottili variabili umane. Anche per questo, probabilmente, l'evoluzione di Gerty - che "allega" alla voce smile di approvazione o disappunto a seconda delle discussioni con Sam - non potrà ricalcare la deriva ribelle del fu HAL 9000: creato dall'uomo per monitorare costantemente e sostenere il lavoro e le giornate dei cloni, ma non per osteggiarli, finirà per comprenderne il dolore, l'angoscia e la frustrazione, "immolandosi" per loro.