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Malamore
L’orfana Mary (Giulia Schiavo) è amante ad uso e consumo di Nunzio (Simone Susinna), erculeo carcerato che intanto desidera un bambino dalla capoclan Carmela. Quando nel suo maneggio giunge il mite Giulio, Mary s’innamora vagheggiando un’altra vita a Roma, ma le grinfie della malavita la imbrigliano in Puglia, obbligandola ad una lotta sanguinolenta ed estrema per autodeterminarsi e liberarsi dalla possessione.
Il nostro cinema solo di recente ha preso a tampinare con convinzione, da più angoli prospettici, la criminalità organizzata pugliese (Il maledetto di Base, passando per i Galantuomini di Winspere fino a Ti mangio il cuore di Mezzapesa). L’esordiente romana Francesca Schirru s’immette in questa corrente: pianta la cinepresa nell’alto brindisino, mantiene la declinazione di genere, e sfuma il mafia movie con un denso melò femminista che tradisce uno sguardo tanto empatico quanto sinottico sulla vicenda.
L’enfasi, infatti, è su come e quanto la criminalità maschiocentrica e patriarcale intossichi a vari livelli vita, sogni, slanci e desideri delle donne. Malamore ritrae con accuratezza e senza edulcorare la Sacra corona unita non tanto come avamposto parassitario di potere (tra avvocati e magistrati conniventi e corrotti) ma soprattutto come piovra invisibile che avvelena senza rimedio ila quotidianità dei cittadini (la vita della protagonista certo, ma anche di donne forzate a impacchettare droga in mutande e reggiseno e perfino della boss che sogna la maternità).
Mary è ingabbiata, vilipesa, burattinizzata da Nunzio con la complicità dello sgherro Michele (un apprezzabile Antonio Orlando che ruba il grugno a Francesco Montanari in Romanzo Criminale) che è anche migliore amico della ragazza. Schirru chiede prima pietà poi sostegno allo spettatore per la sua protagonista in cerca di verità, giustizia e liberta, costretta, però, a sbattere contro il muro di gomma di politica, società e istituzioni omertose, conniventi, corrotte, inadeguate.
Insomma il quadro sociale dipinto da Schirru è desolante, la collettiva è inerme, la mafia regna e soverchia isolando, blandendo e corrompendo tutti. Così che la speranza, inzuppata di sangue, è affidata solo alla tenacia ostinata e contraria di una donna.
Ballando tra i, forse troppi i registri toccati dalla sceneggiatura scritta della stessa regista con Cesare Fragnelli (tallone d’Achille di tante opere prime), Schirru si affida alla varia cifra recitativa dei personaggi (l’intensità bestiale di Susinna, lo sgomento e la rabbia di Schiavo, il cinismo grifagno di Orlando, la leadership ringhiosa e la desolazione tragica di Antonella Carone) inciampando in dialoghi spesso didascalici (e cassabili), imbottendo, inoltre, lo psicodramma di Mary di evitabili cliché.
Latita, dunque, una certa radicalità espressiva così come, soprattutto, la capacità registica di gestire con equilibrio la straripante tenitura emotiva della storia (i galoppini africani mitragliati in un amen da Michele, le lacrime di Mary di fronte al cadavere di Giulio).