“Perché vuoi recitare?”.

Le risposte sono le più disparate, ovviamente non ce n’è una più corretta di un’altra. Siamo a Nanterre, nella metà degli anni ’80, alla scuola del Theatre Les Amandiers diretta in quel periodo da Patrice Chéreau.

Tra gli altri è lì che si formò Valeria Bruni Tedeschi. Che ora, alla regia del suo settimo lungometraggio, torna a quei giorni, in quel luogo, per realizzare Les Amandiers, tradotto a livello internazionale con Forever Young.

E non è una trasformazione poi così lontana dal senso più profondo del film (il secondo diretto dall’attrice/regista italiana naturalizzata francese in gara a Cannes, dopo Un castello in Italia del 2013), proprio perché l’intento di Bruni Tedeschi è quello di catturare il ricordo di un periodo vissuto a pieno regime: le nuove amicizie, gli amori, la passione per la recitazione e il teatro, lo spettro dell’eroina e dell’AIDS.

Saranno per sempre giovani, allora, i bellissimi e problematici protagonisti di questo film capace di sorprendere per la sua folle vitalità, per la capacità che ha di aderire in maniera così spontanea ad un contesto storico né lontanissimo né più – ahinoi – così vicino: Stella, Etienne e Adèle hanno vent’anni, sono tra i 12 che superano l’esame di ammissione all’école diretta da Chéreau (Louis Garrel) e, insieme, affrontano i primi grandi cambiamenti della loro esistenza.

Valeria Bruni Tedeschi - Foto Karen Di Paola
Valeria Bruni Tedeschi - Foto Karen Di Paola
Valeria Bruni Tedeschi - Foto Karen Di Paola

Valeria Bruni Tedeschi - Foto Karen Di Paola

Coadiuvata allo script da Noémie Lvovsky, Valeria Bruni Tedeschi non prende parte al film come attrice (ed è la prima volta che accade in un'opera che dirige) ma dimostra di aver raggiunto una piena consapevolezza del mezzo soprattutto grazie ad una direzione attoriale che sfiora la perfezione: sceglie Nadia Tereszkiewicz (con la quale aveva già interpretato Only the Animals, film del 2019 di Dominik Moll uscito recentemente da noi) come – immaginiamo – suo alter ego nell’economia del racconto, chiamata ad una prova che la vede alternare stati d’animo in continuazione, vuoi per le gioie e le insicurezze di quell’età, vuoi per il difficile rapporto con l’amato Etienne (Sofiane Bennacer), bohémien irresistibile e disperato, eroinomane e depresso.

È un film che non retrocede mai di un millimetro, Les amandiers, imperfetto ma vivo, divertente e triste, trascinante nella scelta di alcune canzoni diegetiche e non (su tutte Le chanteur di Daniel Balavoine, urlata a squarciagola dentro la macchina), di certo atto d’amore verso la scuola e il maestro che l’ha formata (facendola peraltro esordire al cinema con Hôtel de France nell’87) ma non per questo ritratto apologetico di un uomo, Chéreau, che nella caratterizzazione del sempre bravo Garrel (nonché ex compagno della regista) trova anche sfaccettature di uomo non necessariamente “esemplare”.

È l’ulteriore conferma della bontà di un’operazione nostalgia che però non cede mai al ricatto emotivo, magari “sottrae” poco ma – in un certo senso – rispecchia a 360° le caratteristiche della donna, regista, attrice, che abbiamo imparato a conoscere, e ad apprezzare, nel corso degli anni. Bello, vivo.