Nelle produzioni europee di oggi siamo poco abituati a rapportarci con la fantascienza. Gli effetti speciali raramente sono tonitruanti, lo spirito è più intimista. Quest’anno alla Berlinale lo sci-fi del Vecchio Continente ha avuto invece un ruolo da protagonista. In concorso c’erano Another End di Piero Messina e L’Empire di Bruno Dumont. Il regista francese sfida lo sguardo, gli immaginari precostituiti. Si avvicina a Star Wars e Dune, per poi cambiare rotta e dirigersi verso Balle spaziali.

In superficie potrebbe sembrare una parodia dei kolossal d’oltreoceano (l’Impero, per i più, colpisce ancora), ma l’intento è più profondo, stratificato. Nel rielaborare i generi, Dumont resta fedele alla sua poetica. Dentro a L’Empire c’è ancora la forza di L’età inquieta, il ritratto di una società frammentata, dove non si conosce dialogo e si sfocia nella violenza.

Dumont, dietro la macchina da presa, mantiene il suo spirito da professore di filosofia anche quando si concentra sulla commedia. È uno studioso dell’immagine, come ha dimostrato anche in France. In quel caso si interrogava sul distacco tra televisione e cinema, spettacolo e informazione. La condanna era di una pornografia della morte, di un’enfasi dell’apocalisse. La sua estetica resta sempre legata all’etica, anche quando tratta temi più leggeri.

L’Empire richiama i luoghi di Ma Loute, di Jeannette, l’enfance de Jeanne d’Arc. All’apparenza a trionfare è il sorriso, ma dietro si cela l’incomunicabilità, la lotta a un modo di pensare ormai sempre polarizzato, dittatoriale. Lo scontro è tra 0 e 1, non ci sono sfumature, si procede per assoluti. Dov’è la libertà? È soggiogata, è un’utopia che Dumont insegue nel suo cinema, denunciandone la scomparsa.

Per questo L’Empire si traveste da popcorn movie, per poi ampliare l’orizzonte e diventare un film sul corpo. Gli alieni hanno bisogno di una forma fisica per manifestarsi, come in L’invasione degli ultracorpi. Provano attrazione, rielaborano la realtà, portano il loro conflitto nel nostro universo.

Siamo in un villaggio di pescatori nel nord della Francia. Si sentono gli echi di titoli passati realizzati da Dumont. Qui eserciti da altri pianeti si mescolano alla popolazione locale, pronti a scatenare il finimondo. Al centro c’è un bambino metà umano e metà extraterrestre, da cui dipendono gli esiti del conflitto. Una follia? Certo. Come anche il ballo di Fabrice Luchini. Ma il plauso va a un autore che non smette mai di stupire.