Tra i classici europei del secondo Novecento, La vita davanti a sé è il capolavoro di Romain Gary, scrittore la cui vita fu cinema in purezza (avventuroso militare poi diplomatico, romanziere anche sotto vari pseudonimi, dopo la morte dell’amata Jean Seberg si sparò avvolto in una vestaglia rossa come il sangue).

Nel 1977 Moshé Mizrahi ne fece una trasposizione, che vinse l’Oscar per il film straniero grazie soprattutto alla memorabile Simone Signoret nel ruolo di Madame Rosa, un’anziana ex prostituta ebrea, scampata all’Olocausto, che si mantiene ospitando nella sua casa i figli delle colleghe e accoglie riluttante Momò, bambino senza nessuno al mondo. Difficile misurarsi con un tale precedente, a meno che non sia coinvolta un’attrice leggendaria come Sophia Loren, che ha colto nel personaggio la grande occasione per tornare da protagonista (dal 13 novembre su Netflix).

È lei, con l’esperienza e il carisma di chi incarna il cinema stesso, a garantire la credibilità di un adattamento che trasferisce l’azione dalla Parigi degli anni Settanta alla Bari contemporanea, mantenendo i nomi e i vissuti dei personaggi principali, la dimensione multietnica del quartiere, il senso di una comunità composta da outsider che si aiutano a vicenda. Diretta dal figlio Edoardo Ponti, la Loren si è saggiamente circondata di talenti: Ugo Chiti alla sceneggiatura, Maurizio Sabatini e Ursula Patzak per scene e costumi, il conterraneo Renato Carpentieri in testa al cast di supporto.

Ibrahima Gueye e Sophia Loren - credits: Regine de Lazzaris aka Greta
Ibrahima Gueye e Sophia Loren - credits: Regine de Lazzaris aka Greta
Ibrahima Gueye e Sophia Loren - credits: Regine de Lazzaris aka Greta
Ibrahima Gueye e Sophia Loren - credits: Regine de Lazzaris aka Greta

Non tutto torna, sì, ma il dramma è dignitoso e misurato, con il catalizzante portato iconico della diva che s’accorda alla scelta di una fotografia oleografica. La Bari del film, decadente e popolare, si trasfigura in una costruzione atemporale, estranea a un’esatta geografia (potrebbe essere qualsiasi città portuale mediterranea) e in sintonia con il progressivo dissolvimento della memoria di Madame Rosa.

Perseguitata dalle ombre del passato, investe ogni forza nell’ultima sfida: salvare di un bambino (l’inedito Ibrahima Gueye, bravo nel restituire le turbolenze di un dodicenne di strada) quell’innocenza che a lei fu strappata. Ammirevole come nella complessa e naturale interpretazione di Donna Sophia emergano la fragilità, l’orgoglio, l’istinto, l’umanità. È il caso di dirlo: un privilegio rivederla in scena.